BEETHOVEN MENO BEETHOVEN UGUALE BEETHOVEN
- Milo
- 2 set 2018
- Tempo di lettura: 6 min
Cosa resta di Beethoven quando gli togli Beethoven?
Ho 31 anni, quasi 32 ormai, e da piccolo – mi hanno raccontato i miei – andavo pazzo per il VHS originale che avevamo in casa dello storico concerto dei Tre Tenori eseguito alle Terme di Caracalla a Roma il 7 luglio in occasione dei Mondiali di Calcio Italia ’90. Josè Carreras, Placido Domingo e Luciano Pavarotti. Tre delle più belle voci liriche maschili di tutti i tempi riunite insieme sotto lo stesso cielo stellato, dirige Zubin Mehta.
Neanche a parlarne: un tripudio di meraviglia, musica celestiale e folla in estasi. Alla fine tutti, persino i cameramen, gli addetti alla sicurezza e i gatti randagi cantavano Vincerò, Vincerò, Vinceròòòòòòò all’unisono con la celebre romanza (ancor più celebre da quel 1990 in poi) “Nessun dorma” della Turandot di Puccini.
Nel ’90 avevo quattro anni e un giorno sì e uno no – mi hanno sempre raccontato i miei – infilavo la cassetta del concerto nel videoregistratore e muovevo le mani a destra e a sinistra per ‘dirigere’ l’orchestra. Non smettevo finché non finiva il concerto, e non mi annoiavo mai.
Figuriamoci come mi sono sentito quando ho letto che Zubin Mehta avrebbe diretto la Nona Sinfonia di Beethoven al Teatro San Carlo di Napoli. Ho pensato: “Mehta, Nona, San Carlo. Mi mancano tutte e una tripletta del genere non ricapita più nella vita.” Sarebbe come dire, per chi ama il genere, una serata De André e Battisti in concerto accompagnati dalla PFM, una roba simile ecco; però nel 2018, quando uno della mia età si è ormai rassegnato a non vederli più.
Biglietto comprato prima di subito.
Entro nel teatro, che è magnifico, prendo posto nel palchetto, piuttosto centrale, e mi siedo col battito cardiaco leggermente accelerato dall’emozione.
Ora, visti i termini dell’equazione, mi sarei aspettato non solo di ascoltare Beethoven, ma di trovarmi nel bel mezzo di un’esperienza trascendentale e senza paragoni di divino furore romantico che mi avrebbe strappato la pelle dal connettivo e i muscoli dai tendini… e invece non ho neppure trovato Beethoven.
(Faccina triste – siamo nell’era delle Emoticon).
Quella che è la più celebre sinfonia della storia e del mondo, nelle mani forse stanche, forse solo anziane, dicono ammalate, del Maestro Mehta si trasforma in una zoppicante caricatura di se stessa, una marcetta da fanfara eseguita in maniera piuttosto scolastica, sterile, come da aula studio di un mediocre conservatorio. Per lo meno quel che percepisco io è un netto: portiamo a casa la giornata, via, tanto la sanno tutti a memoria, come la suoni la suoni applaudiranno lo stesso.
Prima di tutto il Tempo. Rigido, sballato e davvero troppo, troppo lento. Tanto lento che il Primo Movimento non è né ‘allegro’ né ‘un poco maestoso’, come lo spartito vorrebbe. Tanto lento che il timpanista non riesce a suonare in sincrono gli stacchi del tema iniziale. Tanto lento che non mi viene nemmeno da muovermi, e invece quando la ascolto a casa da un misero file mp3 è tutto un tumulto che mi spinge a voler invadere la Polonia (battuta spudoratamente ispirata alla sitcom Modern Family e piuttosto cattiva, ma se la immaginate detta dalla voce di Oreste Lionello che doppia Woody Allen sono certo che me la passerete).
Deluso, penso: ok, sarà una scelta stilistica, anche lui l’avrà eseguita decine di volte e vorrà cambiare, chi sono poi io per giudicare, proprio nessuno, aspettiamo il Secondo Movimento.
Parte il Secondo Movimento, e penso: dev’essere uno scherzo! Appunto… Quello Scherzo che Beethoven piazzò al secondo posto invece che al terzo come era consuetudine nelle sinfonie, quello Scherzo che Ludwig rese così turbinoso e drammatico invece che semplicemente giocoso e danzante come era consuetudine nelle sinfonie, quello Scherzo che Kubrik immortalò usandolo come sottofondo nelle famose scene di Arancia Meccanica.
Be’, stessa storia. Io non sento né il ‘molto vivace’ né tantomeno il ‘presto’, come lo spartito vorrebbe. Nella mia limitatissima esperienza di musica classica ho avuto modo di imparare molto bene che ‘Presto’ significa una sola cosa: ‘difficile’, ‘tosto’, ‘studia un sacco, concentrati e preparati a sudare durante l’esecuzione’.
E invece niente. Non sento il fuoco né il tormento che Beethoven aveva inscritto nella sua opera-testamento con tanta chiarezza. Il fagotto che riprende il tema, poi, mi suona legnoso come la colonna sonora della scena di un cartone animato in cui si vede camminare un vecchio antipatico dal sedere ingombrante.
Del resto molti dei musicisti sembrano lì lì per addormentarsi, e finiscono per peggiorare il SottoTempo/FuoriTempo nell’unico modo in cui possa essere peggiorato, ossia stonando. Specie gli ottoni, in almeno un paio di occasioni. Buon dio.
Il Terzo Movimento, ‘Adagio molto e cantabile’, è un vago mix delle due. Anzi, questo paradossalmente mi pare suonato un po’ troppo veloce, ma sarà una questione di gusto personale.
E quando infine parte il Quarto, quello che tutti aspettano con maggiore ansia, perché è così e si sa e lo sapeva anche Beethoven e per questo l’ha piazzato per ultimo, non è ‘presto’, non è ‘maestoso’, non è ‘energico’. Non si infiamma, non si incendia, non esplode.
I quattro cantanti solisti fanno il loro lavoro in maniera decente, per carità, ma non eccezionale. Gli ottoni stonano ancora. Tra le viole e i violoncelli si vede gente tenere il tempo facendo di qua e di là con la testa non tanto come un metronomo, che già darebbe fastidio ma almeno sarebbe a tema con la festa, quanto come dei tergicristalli quando fuori diluvia. Non vedo il timpanista sbracciarsi e sudare, non vedo coinvolgimento, non vedo commozione. La sezione femminile del coro avrebbe potuto darsi appuntamento altrove per questo suicidio di massa operato per asfissia autoindotta, e lo stesso dicasi per quella degli uomini e la loro partita a Morra con annessi strilli sguaiati da osteria. Nemmeno alla Corrida li avrebbero presi. Eppure non è da poco il privilegio che hanno: poter cantare quelle parole su quelle note davanti a una folla simile, diretti da quel direttore e in una cornice incantevole come quella del San Carlo.
E le dinamiche? Dove sullo spartito ci sono due Effe vuol dire Fortissimo, dunque dove ce ne sono tre vuol dire giubilo, strepito, alla carica che è scoppiata la guerra, mentre quest’orchestra si ricorda a malapena della F singola di Forte e in un paio di punti, forse tre – il che è ancora peggiore perché si sente che la potenza, in potenza, ci sarebbe eccome.
Mi spiace davvero, ma Mehta non è andato in meta, anzi è arrivato appena a metà. (Il pessimo gioco di parole doppio è voluto per sottolineare la delusione.)
Ma la delusione riguarda questa singola esibizione, ci mancherebbe altro.
I dieci minuti di applausi finali sono legittimi e doverosi, anche se mi pare siano un po’ tutti d’accordo sull’indirizzarli all’onorata carriera del Maestro (durata 60 anni!), al suo ritiro (imminente) e a Beethoven (è una delle opere d’arte più importanti dell’umanità).
I dieci minuti di applausi sono giusti e meritatissimi, e mai chi qui scrive oserebbe biasimarli, ma non è così che si tratta Beethoven, specie un pezzo come questo. E si vedrà, forse sbaglierò i pronostici, ma non credo ne troveremo spezzoni più o meno lunghi condivisi su YouTube.
Non voglio infilare a forza anche qui i miei discorsi sulla progressiva illuminazione e il lento risveglio dell’umanità, temi che mi stanno molto a cuore ultimamente, ma stiamo parlando della Nona: la Sinfonia in Re minore Op.125, la Sinfonia Corale, quella che dura più di un’ora, quella che Beethoven compose da sordo, quella che contiene l’Ode alla Gioia su versi di Schiller che viene fuori lenta dai suoi primi accenni come un serpente che si libera della pelle, quella che per prima si permette di piazzare lì un testo, un coro e quattro voci soliste, quella che è stata dichiarata Memoria del Mondo dall’UNESCO, quella che costituisce la summa di tutta la musica classica precedente e anche di un bel po’ della successiva e incarna in modo supremo ogni aspetto dell’idealismo romantico, dallo Sturm Und Drang al Sublime, dalla bellezza divina della natura al desiderio di fratellanza e unità per e tra tutti gli uomini del mondo.
E allora, cosa resta di Beethoven quando gli togli Beethoven?
La risposta è: ancora Beethoven.
E aggiungerei: grazie al cielo – anzi, all’Elysium, per restare in tema.
A Beethoven, specie alla Nona Sinfonia, puoi togliere tutto e di più ma non riuscirai neppure lontanamente a scalfirli. E’ come per la Gioconda, la Cappella Sistina, Guernica, la storia di Gesù di Nazareth… sono troppo personali per tutti, toccano troppo da vicino ognuno di noi al di là delle proprie credenze e gusti, perché c’è dentro troppo dell’uomo – o dell’Uomo, se vi piace di più. C’è dentro tutto il dolore, la sofferenza, la gioia, la compassione, la bellezza, l’estasi e la gratitudine che siano mai passati per gli occhi, le menti e i cuori di chiunque.
Sono punti, pezzi del corpo dell’umanità in cui gli artisti hanno trasceso la propria dimensione fisica e sono riusciti a racchiudere in un ritaglio di esistenza tutto ciò che gli uomini sanno del presente, ricordano del passato e intuiscono del futuro: un messaggio sulla vita a uso e monito dei posteri (che saranno poi bravissimi a ignorarlo).
Ecco perché continuano a riprodurli, ristamparli e rieseguirli mille volte al giorno e in ogni angolo del pianeta: per ricordarci che c’è altro, oltre a noi, e che questo altroè sconfinato e sconvolgente e ognuno di noi ne è parte costituente essenziale e insostituibile, al pari di ogni stella, galassia e opera d’arte presente nella sinfonia del cosmo.
© Maurilio Di Stefano, 2018
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