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MAZE RUNNER - UNA LETTURA SIMBOLICA

  • Immagine del redattore: Milo
    Milo
  • 18 gen 2019
  • Tempo di lettura: 15 min

© Maurilio Di Stefano, 2019



A primo impatto non è diverso da tanti altri prodotti letterari e cinematografici moderni che hanno come target principale i teen-ager. Un primo libro che ha successo viene trasformato in una trilogia che poi diventa una trilogia di film e benvenuti prequel, sequel e spin-off vari se la risposta del pubblico lo consente. Storia già sentita: Divergent, The hunger games, Twilight, e così via.

Ma a un’occhiata più approfondita Maze Runner ha certamente dei significati nascosti molto interessanti; che sono poi la ragione per cui ho avuto piacere di vederlo interamente – parlerò qui del primo film, ‘Il labirinto’, non ho ancora visto gli altri e non ho letto i libri – invece di sentire l’urgenza di abbandonarlo come mi è capitato per tanti altri.

Dunque, vediamo di spiegare perché.



1. La storia


Un tipico futuro distopico, un tempo non meglio identificato.

Thomas, il nostro protagonista, si risveglia in un ascensore metallico, la Scatola, senza nessun ricordo se non il proprio nome. La Scatola lo conduce alla Radura, un posto dove un gruppo di ragazzi – esclusivamente maschi – sono stati mandati a vivere proprio come lui da non si sa bene chi e non si sa bene per quale scopo.

L’unica certezza è che la Radura è circondata su tutti e quattro i lati dalle mura ciclopiche di un mastodontico Labirinto altamente tecnologico. Un Labirinto le cui porte si aprono all’alba e si richiudono al tramonto di ogni giorno e il cui dedalo di passaggi cambia assetto ogni notte. Come se non bastasse, i suoi cunicoli sono popolati da letali creature, mostri meccanici che i ragazzi della Radura chiamano Dolenti.

I ragazzi, spediti nella Radura al ritmo di uno al mese, hanno nell’arco di tre anni formato una vera e propria società in miniatura, con i suoi leader e le sue suddivisioni in gruppi a seconda dell’abilità di ognuno.

Ci sono i Velocisti, che sanno correre più rapidamente di tutti e durante il giorno sfrecciano attraverso tutto il Labirinto per mapparlo palmo a palmo e aiutare a trovare una via d’uscita. Poi i Battimattone, quelli bravi a usare le mani, gli Squartatori, i Medicali.

A ogni gruppo non si decide di appartenere, si deve venir scelti.

Tra le categorie emergono però delle figure singole di rilievo:

· Alby, il cui nome ricorda “l’alba” del primo uomo; infatti lui è il primo in assoluto ad essere arrivato nella Radura e guarda caso è interpretato da un attore afroamericano – dicono che l’Africa sia la culla dell’uomo;

· Newt, il cui nome suona proprio come un diminutivo di Isaac Newton, il celebre scienziato; non a caso Newt è il leader ‘illuminato’ del gruppo, intelligente e saggio, ma anche forte e coraggioso a dispetto del suo fisico mingherlino;

· Gally, nome che, se Newt è Newton, è lecito pensare si riferisca affettuosamente a Galileo; Gally rappresenta in un certo senso l’antitesi di Newt, la personificazione della razionalità ottusa, il sacerdote obsoleto ancora legato al vecchio culto o il politico ancorato al vecchio sistema che ha paura che i nuovi, i giovani, i rivoluzionari vengano a scalzarlo via. La società della Radura ha delle regole e le regole hanno sempre mantenuto in vita i suoi abitanti, questa è la sua tesi principale; vero, ma è anche vero che le regole sono ciò che li ha sempre tenuti prigionieri del Labirinto, cosa a cui Thomas evidentemente non sa rassegnarsi;

· Chuck. Chuck è l’unico che tanto emotivamente quanto fisicamente, rispetto agli altri che sono adolescenti o giovani uomini, appare invece ancora come un bambino. È più basso, meno sviluppato, più in carne, più innocente, più puro, ma anche lento e ingenuo. Infatti è l’unico che, seppure come tutti gli altri non ricordi i propri genitori, continua a intagliare un oggettino da regalare loro quando e se li rivedrà;

· e infine Minho, uno dei Velocisti, il cui nome non può non ricordare quello di Minosse e del Minotauro, i personaggi del mito a cui evidentemente la storia di Maze Runner si ispira e di cui andrò a fare un veloce riepilogo nel prossimo paragrafo.



2. Il mito del Minotauro e del Labirinto di Cnosso


Tra le decine di miti greci questo è certamente uno dei più conosciuti e studiati. Come spesso accade, non ne esiste una versione unica e univoca, ma il succo della vicenda (la fonte è Wikipedia ma la letteratura inerente è smisurata) si può riassumere molto velocemente.

Il dio del mare Poseidone invia a Minosse, figlio di Zeus e re di Creta, un bellissimo toro bianco perché egli possa sacrificarlo in suo onore. Il re, però, decide di tenere il toro per sé e ne sacrifica al dio un altro. Poseidone, adirato, fa innamorare Pasifae, la moglie di Minosse, del toro stesso, e dall’unione tra l’animale e la donna nasce il celebre Minotauro, feroce e sanguinario mostro che si ciba di carne umana. Per impedire alla bestia di nuocere, Minosse fa costruire all’artista Dedalo (dal cui nome la parola che è tutt’oggi usata come sinonimo di labirinto) il Labirinto di Cnosso in cui rinchiudere il Minotauro, a cui ogni anno la città di Atene, sottomessa a Creta, deve inviare sette fanciulli e sette fanciulle in sacrificio così che il mostro possa cibarsi delle loro carni. Sarà Teseo, figlio del re ateniese Egeo, a spezzare il macabro rituale affrontando e uccidendo il Minotauro nel cuore del labirinto con l’aiuto di Arianna, figlia di Minosse e Pasifae, che si innamora del giovane e lo aiuta col suo celebre ‘filo’, un gomitolo di lana che si tende senza spezzarsi e grazie al quale Teseo può ritrovare l’uscita del labirinto alla fine dell’impresa.

Il racconto del mito poi prosegue altrove e coinvolge Icaro, figlio di Dedalo, e ancora Teseo e Arianna, ma le vicende successive non interessano particolarmente questa mia analisi.

Quello che invece mi interessa sottolineare è che è un peccato che siano sempre gli Americani ad apprezzare così tanto la nostra mitologia, i nostri simboli, i nostri insegnamenti, tanto da riempirne tutti i prodotti hollywoodiani più commerciali e popolari.

Loro hanno capito benissimo che i racconti più belli sono quelli mitologici, dell’antichità, e che sempre lì si torna quando si scrivono storie, anche senza accorgersene. Loro sanno perfettamente che all’interno di quelle figure e vicende tutti noi ci ritroveremo inconsapevolmente e ci identificheremo a livello inconscio e archetipico.

E lo sfruttano a loro vantaggio. Infatti le sale dei cinema sono continuamente piene in tutte il mondo anche se la trama di ogni film di supereroi o di ‘teen-ager che diventano uomini’ è strutturalmente e drammaturgicamente sempre la stessa.

Invece noi che ci siamo nati immersi dentro, che ne deriviamo completamente, lo diamo per scontato come facciamo con il Colosseo, e stiamo spesso e volentieri a produrre film che parlano di amore e repressione sessuale, di tradimenti, “corna” e depressione, elevando a mitologia nell’educazione delle future generazioni tutto un altro tipo di valori e anche di storytelling.

Comunque, chiusa parentesi.



3. I significati mitici e simbolici del labirinto


Il labirinto ha assunto nei secoli diversi significati simbolici, psicologici e persino alchemici. In generale, comunque, sta a rappresentare sempre un rito di passaggio, una crescita, un’iniziazione. Proprio come il bosco o in certi casi un lungo viaggio attraverso terre lontane, rappresenta uno smarrirsi per poi ritrovarsi, un morire per poi rinascere, un perdersi ragazzi e tornare uomini. Analogamente, a livello psicologico, rappresenta se stessi, la propria mente, il proprio inconscio, nel quale paure, incubi e demoni si annidano, crescendo e proliferando quanto più noi evitiamo di affrontarli.

I molteplici elementi di richiamo a tale visione di cui il film è disseminato non sono affatto casuali.

Primo fra tutti, il ritrovarsi nella Radura senza memoria: chiaro simbolo di dimenticanza del passato, genitori inclusi, dunque morte e successiva rinascita. Il lasciarsi alle spalle il bambino/ragazzo e diventare uomo. Ed è attraverso il labirinto che avviene il rinnovamento, la crescita.

All’interno del proprio labirinto, quando è giunto il momento di affrontare i propri mostri interiori, non importa l’età: si ritorna bambini. Si è sempre piccoli e indifesi di fronte all’oscurità e all’ignoto, soprattutto se dimorano dentro di noi. Ma è solo affrontandoli – e simbolicamente uccidendoli, proprio come Teseo con il Minotauro – che si può riguadagnare l’uscita da persone diverse.

Secondo dettaglio: il Labirinto si apre all’alba e si richiude al tramonto. Cambia assetto durante la notte, che è proprio il regno delle tenebre, della luna, dei sogni, dell’inconscio che emerge e dei ricordi che riaffiorano. E per quanti sforzi facciamo di mapparlo di giorno, correndo come i Velocisti, alla luce sicura della razionalità, non ci riusciamo mai del tutto, perché l’accesso all’altro lato della mente, all’emisfero destro del cervello, avviene quando il sinistro, quello razionale, è addormentato e silente. Infatti gli ‘invii’ alla Radura proseguono al ritmo di un ragazzo nuovo ogni mese, proprio a tempo con i cicli della luna.

Terzo: le mura del Labirinto sono quasi interamente ricoperte d’edera. Un particolare affascinante e interessante, perché l’edera è segno inequivocabile di abbandono ma anche simbolo storico della tenacia. Infatti è anche l’unico appiglio che Thomas e i suoi compagni hanno per arrampicarsi sulle pareti e salvarsi.

Quarto: i mostri che popolano il Labirinto. Resi in Italiano come “i Dolenti” (una traduzione niente male, considerando le alternative), in originale sono chiamati ‘The Grievers’. La parola inglese è di certo più specifica e appropriata. Quando si usa il verbo ‘to grieve’ infatti non si parla esattamente di dolore, quanto piuttosto di trauma, di sofferenza per una perdita, come ad esempio un lutto, e il termine è spesso usato nella sfumatura di qualcosa di non ancora superato, non del tutto risolto e che si sta al momento processando.

E non esiste un animale migliore del ragno, che Thomas affronta e uccide, per esprimere questa idea. Il ragno che tesse la tela, che imprigiona, che invischia, rallenta, stordisce, anestetizza, uccide, nel labirinto intricato della mente dell’uomo.

Eppure il filo del ragno può essere usato, proprio come il filo di Arianna, per trovare l’uscita. Esattamente come la doppia valenza dell’edera, ciò che sembra un ostacolo insormontabile può trasformarsi in risorsa.

Non a caso il nome Arianna (in greco Ariadne) condivide una certa assonanza con quello di Aracne (o Aragne), la famosa donna, ancora una volta appartenuta alla mitologia greca, che osò sfidare la dea Atena nell’abilità di tessere e fu da Atena stessa tramutata in ragno e destinata a tessere per tutta la vita con la bocca come punizione per la sua sfrontatezza. (Aracnidi, come è noto, è tuttora il nome scientifico della classe animale a cui i ragni appartengono).

Infine, particolare da non sottovalutare, il Labirinto è sì interamente fatto di pietra, eppure si muove. Cambia forma. E può essere affrontato e, come si vedrà, superato. Ne risulta chiaro il messaggio che neppure la pietra è eterna, quindi figurarsi i traumi di cui ci sembra non ci libereremo mai.



4. Chi è Thomas, chi sono gli altri


Thomas, il cui nome risuona vagamente delle stesse consonanti di quelle di Teseo, è molte cose.

Thomas è lo spirito, la personificazione della parte maschile della psiche, del cervello sinistro, l’incarnazione del coraggio che agisce senza riflettere e si getta volontariamente nel pericolo, ossia nel Labirinto, anche se ha paura.

“Anche io ho paura, ma preferisco rischiare la vita lì fuori che morire qui dentro”, dice Thomas. E quando davanti al Labirinto Minho gli chiede: “Sei sicuro di entrare?”, lui risponde: “Per niente.” Però entra. Certo che entra.

E poi è il primo che davanti ai Dolenti non scappa, ma li affronta. Lui vuole andare a vederli da vicino, smontare letteralmente i loro cadaveri, vivisezionarli; e infatti è tramite una disgustosa autopsia che lui e i compagni trovano il congegno che li porta un passo più vicino alla chiave. Questo a indicare che una cosa farà sempre paura finché non la si conosce, finché non la si guarda da vicino, finché non le si dà un nome.

Ma non solo. Thomas è anche colui che ragiona fuori dagli schemi, che non sottostà bovinamente agli inquadramenti della società, che non si ferma alle leggi date né le rispetta semplicemente perché è così che si è sempre fatto. Per questo si scontra con Gally. E per questo, per quanto affascinato dai Velocisti, sembra non volersi, o non potersi, identificare del tutto in nessuna delle categorie. Non sa solo correre o solo ragionare o solo lottare, ha caratteristiche trasversali a tutti i gruppi – in questo ricorda molto da vicino Tris, la protagonista della serie Divergent.

Ed è sempre lui che si inietta in vena il veleno recuperato da un arto reciso di uno dei Dolenti, perché sa che così è possibile ricordare, per quanto doloroso. E lui vuole ricordare, lui vuole davvero affrontare non solo il Labirinto ma anche il proprio passato, e non seppellire la polvere sotto al tappeto come fanno gli altri.

Gli altri… che sono personificazioni precise al millimetro di tutti gli istinti e delle diverse componenti della personalità di ognuno di noi quando siamo impegnati a crescere o da adulti entriamo in qualche labirinto.

Quando Thomas ha il suo momento di crisi a tre quarti del film, come da copione, è Newt, l’antonomasia dello scienziato settecentesco, illuminista e illuminato, rappresentazione della ragione e del potere dell’intelletto, a dirgli: “Muovi il culo e finisci quello che hai iniziato!” Perché non scoraggiarsi quando si è vicini al risultato è molto più difficile che iniziare.

Gally invece accusa Thomas: “Da quando sei arrivato tu è cambiato tutto.” Perché Gally è la paura, è la fedeltà ai vecchi valori, a cui si resta abbarbicati a ogni costo. Gally resta così fedele al ruolo di sacerdote del vecchio culto che tenta addirittura di sacrificare al Labirinto i nuovi uomini (Thomas e i suoi ‘seguaci’) legandoli a un palo.

Neanche quando Thomas gli dice che ormai sono usciti, ne sono fuori, “L’abbiamo già fatto, siamo liberi”, neanche allora lui vuole crederci. E non lo fa. Dichiara anzi fermamente di appartenere al labirinto, cosa che lo porta inevitabilmente alla morte. La lettura è semplicissima: chi è ancorato alle proprie idee a ogni costo finisce per soccombere loro.

E poi c’è Chuck. Chuck che dice che i suoi genitori potrebbero sentire la sua mancanza ma a lui non mancano perché non se li ricorda, eppure continua a intagliare per loro un oggettino di legno.

Il distacco dai genitori, se da un lato spaventa, dall’altro ci rende incredibilmente liberi. È una volta affrancati dal peso del passato, di cui i genitori sono in parte simbolo, che possiamo diventare chi vogliamo. Ma Chuck non se ne stacca mai davvero. E per questa ragione, in quanto simbolo del bambino, del lato infantile della personalità, deve necessariamente morire, ossia essere metaforicamente ucciso o lasciato indietro perché possano andare avanti invece quelli pronti a diventare uomini. Se non muore il bambino, il giovane uomo non può venire fuori.

Sul cadavere di Chuck Thomas piange, si dispera: è la resistenza che tutti opponiamo al lasciare morire il bambino che è in noi, ma è un rito di passaggio indispensabile, o è impossibile crescere.



5. Teresa


All’improvviso, un giorno la Scatola invia un nuovo giovane e annuncia che questo sarà l’ultimo. Ma, con grande sorpresa di tutti, si tratta di una ragazza. La prima e unica. Teresa.

Già in precedenza nel film Thomas aveva sognato lei, e lei racconta di aver sognato lui. Perché è così: loro sono le due metà di una stessa entità che solo ora è finalmente ricongiunta e completa. I nomi Thomas e Teresa hanno infatti anche lo stesso numero di lettere e una innegabile assonanza.

Chi è Teresa ormai è facile capirlo. Teresa è la parte animica, creativa, femminile della personalità, il lato destro ed emotivo del cervello, che smussa il sinistro e lo completa e aiuta nell’impresa. Thomas è Teseo così come Teresa è Arianna, e solo mediante la loro sinergia il mostro sarà sconfitto e si troverà la via d’uscita dal labirinto.

“Wicked è buono” è infatti la frase ripetuta di continuo nel film. Wicked è il logo, per così dire il marchio di fabbrica inciso sui congegni meccanici dei Dolenti, dunque il nome dell’organizzazione che è dietro alla creazione del Labirinto stesso. Ma “Wicked è buono”. Ossia, come suonerebbe in lingua originale, “Wicked is good”. Che tradotto in Italiano come se ‘wicked’ avesse l’iniziale minuscola e fosse dunque usato come un semplice aggettivo, sarebbe ‘il malvagio è buono’. Come dire che il male è bene: ogni coppia di opposti non costituisce che due facce della stessa medaglia.

“Perché siamo diversi?” chiede Thomas a Teresa, riferendosi a loro due. La risposta a questa domanda arriva presto, con il colpo di scena di cui parlerò a breve.



6. La distruzione dei confini e l’uscita dal Labirinto


Una volta che Thomas e i suoi trovano il centro nevralgico, la tana dei Dolenti, accade per la prima volta che le porte del Labirinto non si richiudono al tramonto, anzi si aprono da tutti e quattro i lati, una porta per ognuno dei punti cardinali.

Ecco così che senza più barriere i mostri dell’inconscio invadono la Radura. Il posto sicuro non è più sicuro, le mura erette contro l’oscurità non bastano più ed è ora di lottare con i propri demoni. Tutte le cose non affrontate, che si credevano relegate nella notte, ossia sepolte nell’inconscio, sono cresciute a dismisura, e alla fine hanno invaso anche la zona sicura del giorno, la Radura, perché non ce ne siamo sbarazzati quando potevamo ed eravamo ancora in tempo. E spesso, quando questa invasione avviene, è già troppo tardi: la lotta provocherà inevitabilmente uno spargimento di sangue.

Ovviamente però, i Dolenti possono essere uccisi col fuoco, che è uno dei più potenti elementi primordiali, simbolo della scintilla divina, della luce e dell’illuminazione, della nascita, della vita, della creazione dell’universo e dunque della creatività della mente che si può finalmente mettere a frutto dell’ingegno e del coraggio per liberarsi della schiavitù del Labirinto.

“Questo non è il nostro mondo, non è casa nostra. Ci hanno chiusi qui e ci hanno intrappolati.”



7. I creatori del Labirinto


Ciò che si scopre alla fine del film offre lo spunto per due interessanti riflessioni.

La Radura all’interno del Labirinto, luogo sicuro ma anche primitivo, di stampo tribale, dove questa sorta di neo-società di giovani è ridotta alla mera sopravvivenza, è stata in realtà creata in laboratorio. Dunque si può leggere qui l’idea di un mondo moderno e iper-tecnologico che allontana l’uomo dall’inconscio e dunque dalla sua parte atavica, istintiva, per ricollegarsi alla quale è necessario fuggire dalla modernità.

Ma non solo. Quel che è ancora più interessante è il vero colpo di scena, ossia che Thomas era, proprio come Teresa, tra i collaboratori della creazione del progetto, quindi tra i creatori stessi del Labirinto, anche se non ne serbava più alcun ricordo.

Questo risvolto a livello simbolico è fenomenale. Mette in luce la chiara evidenza di come possiamo essere noi stessi i creatori del labirinto dal quale poi non riusciamo a uscire. Siamo noi che mettiamo alla prova noi stessi, a volte (“Questo posto non è una prigione, è un test”), così come siamo noi a possedere la chiave.

“So che possiamo uscire, ne sono sicuro.”

Thomas lo sa. Certo che lo sa. Perché è lui che ha creato il labirinto. Ed è lui e solo lui a sapere come uscirne. Una volta capito questo, per quanto doloroso possa risultare, è solo una questione di volontà.



8. Conclusioni


Maze Runner, oltre che i palesi riferimenti al mito greco, presenta analogie con molti altri prodotti di genere affine, questo è indubbio. Solo per fare gli esempi più eclatanti:

· il ragno mostruoso che il protagonista deve affrontare ricorda lo Shelob de Il signore degli anelli;

· i ragazzi che rifondano una sorta di nuova società in un ambiente ostile e selvaggio richiama il capolavoro capostipite del genere, Il signore delle mosche di William Golding, ma anche opere più recenti come The 100.

· il labirinto che si muove da sé e cambia disposizione di continuo ricorda la fantascientifica trilogia di The Cube;

· la trasversalità delle doti di Thomas ricorda, come ho già accennato, Tris, la protagonista della trilogia di Divergent;

· l’adolescente che si ribella a un sistema autoritario in un mondo distopico e inizia la rivolta che ribalterà tutto ricorda Katniss, la protagonista della trilogia di Hunger Games.

Eppure il messaggio finale di Maze Runner vale lo stesso la pena di essere esplicitato, ed è riassunto alla perfezione da questa battuta del film: “Le persone che eravamo prima della radura non esistono più: i Creatori hanno voluto così.”

Questa dichiarazione mi richiama inevitabilmente alla memoria quello che accade ne Il signore degli Anelli a Gandalf il Grigio. Lo stregone, come tutti ricorderete, precipita nelle viscere della terra, affronta un Balrog, guarda caso “un demone del mondo antico” (ci ritornerò sopra in un attimo) e ne viene fuori vincitore. Torna poi al mondo dei ‘vivi’ come Gandalf il Bianco (un colore niente affatto casuale) e nemmeno si ricorda più bene di chi era una volta, della sua vecchia vita, né che un tempo lo chiamavano Gandalf il Grigio. Be’, sono in molti a sostenere che è proprio questo il sintomo inequivocabile del vero cambiamento: non riuscire a ricordarsi chi si era prima di precipitare nelle viscere della terra, o, come ormai è chiaro, prima di penetrare nell’intrico del labirinto.

Ma perché proprio un demone del mondo antico, dunque primitivo, dunque primordiale? Perché nei libri e nei film di genere horror, fantasy e fantascienza il nemico, il mostro, l’alieno è sempre una creatura del mondo sotterraneo, ‘bassa’, ctonia, come un grosso insetto, un verme, un serpente o uno scorpione? Perché Gandalf affronta un Balrog e Thomas un enorme ragno?

Come mai il mostro non è mai, ad esempio, una tartaruga gigante? Perché è lenta, direte voi. Ma allora perché il mostro non è mai un’aquila, un orso, un lupo, un elefante, una tigre, un leone? Un leone-mostro sarebbe parecchio pericoloso come nemico, non vi pare? Eppure non c’è niente da fare, non accade mai (se non in qualche opera minore che magari conosco ma che ora non mi viene neppure in mente).

La risposta è triplice.

Primo: archetipicamente questi grandi animali come orsi, lupi ed elefanti rappresentano da sempre qualità positive per l’uomo: la forza, il coraggio, la saggezza, e così via.

Secondo: c’è la questione del mito, sempre il mito. Anche la mitologia antica dei popoli più disparati ripropone continuamente ragni, serpenti e scorpioni in tutte le salse come nemici da affrontare o come creature in cui venire trasformati dagli dei come punizione della propria arroganza, anche se questa non è la sola immagine che si dipinge di simili animali.

Ma c’è anche un terzo aspetto, a cui si pensa meno ma che è forse il più interessanti di tutti. E qui vengono in aiuto le neuroscienze. Ossia: la parte più antica, più primitiva del nostro cervello, quella che abbiamo ancora in comune con le creature meno evolute e che viene definita ‘rettiliana’, è la sede degli istinti di sopravvivenza più arcaici che possediamo e che ci aiutano a perpetuare la specie, ma che noi uomini, per come è strutturata la nostra società, dobbiamo anche imparare a dominare. In questo ci aiutano le sezioni ‘superiori’ del nostro cervello, quelle più ‘giovani’ in quanto comparse molto dopo nell’evoluzione.

Ma la situazione ottimale è sempre e inevitabilmente la sintesi, proprio come con Thomas e Teresa, Teseo e Arianna, maschile e femminile, spirito e anima, cervello destro e cervello sinistro. Entrambe le parti sono indispensabili, all’uscita del labirinto.

Rinascendo uomini, abbiamo bisogno tanto del lato rettile, per non ritrovarci a essere solo dei filosofi sognatori incapaci di affrontare la vita vera, quanto del nostro intelletto e della nostra emotività, per non ridurci a bestie guidate solo dall’istinto della sopravvivenza e della riproduzione.

È per questo che Noè porta con sé sull’Arca tutti gli animali quando il vecchio mondo finisce, ossia quando simbolicamente si lascia alle spalle il vecchio se stesso e con una barca galleggia sul mare che sommerge tutta la realtà del passato: perché ha bisogno di tutte le risorse possibili per essere il primo uomo del nuovo mondo che verrà.

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