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BOTERO ALLE SCUDERIE DEL QUIRINALE

  • Immagine del redattore: Milo
    Milo
  • 27 set 2017
  • Tempo di lettura: 5 min

“Dipingere è una professione angosciante.”


A volte anche scrivere lo è. Per questo mi piace tanto questo punto di unione. Tra parole e pittura. Per questo mi piace poter vivere un pittore attraverso le sue parole, che non è una cosa così comune. Come quando ho visto lo spettacolo su Frida Kahlo a teatro. Per questo mi piace rivivere e mettere in salvo il ricordo della mostra di Fernando Botero proprio attraverso le sue parole.


“Fortunatamente l’arte ha una grande dote: è inesauribile.”


Talmente inesauribile che lui, Botero, aveva voglia di rendere l’idea attraverso le sue figure enormi, le sue forme obese. Che sono enormi e obese solo a uno sguardo distratto. Non sono figure grasse, sono semplicemente lievitate, espanse, come gas. Sono ovunque.


“La deformazione dei miei quadri deriva da un’inquietudine estetica.”


Botero ci tiene a ribadire che la sua non è satira. E infatti sono serissimo mentre mi chiedo: che cos’è un’inquietudine estetica? L’ho mai provata, in vita mia? Posso mai dire di capire queste parole? Mi vanto di aver letto tanto e di avere la passione della scrittura eppure non sono sicuro di aver compreso, nel profondo, sotto pelle, quello che un pittore ha voluto dire con due semplici parole, nome più attributo, le basi della grammatica.


“L’anima latino-americana permea tutta la mia arte.”


Dev’essere proprio come dice Baricco quando parla di Garcia Marquez: che non esistono mezzi toni, quando si ha a che fare con i sudamericani. Che siano scrittori o pittori, aggiungo ora io. E questi due sono entrambi colombiani, guarda caso. Gli scenari sono sempre vividi, i colori accesissimi, il dramma estremo, esagerato, un conflitto interiore talmente spropositato che si può esprimere solo per iperboli.


“Quello che un artista vede nel corso della sua giovinezza resta fondamentale per gli sviluppi di tutta la sua opera futura.”


Allora lui deve aver visto grandezza, no… superficie credo sia la parola esatta. Botero deve aver visto tanta superficie quando era adolescente, o non si spiegano le sue opere. Deve aver avuto tanto Io. Deve essere stato intelligente abbastanza da mantenere grande il bambino che aveva dentro e non lasciarlo soffocare dal mondo.

Infatti è questo che mi comunicano i suoi quadri. Quello che il mondo chiama infantile e che gli artisti invece sanno di dover salvare dalla distruzione. Il vero miracolo. In tutti i suoi quadri il resto rimane piccolo e aumenta lo spazio delle persone. Mi sembra il riassunto di uno che vuole andare a vivere isolato nel mezzo del nulla.

Misura senza misura, misura smisurata, arance così grosse che tre prendono un tavolo e una copre il tetto di una casa, come mai sarebbe nella realtà. Nella realtà nessuna superficie occupa tutta quella superficie.

Sarà che i sudamericani sono attaccatissimi alla loro terra e l’uomo, della Terra, vive per lo più la superficie. Chi ci ha mai messo piede nel cuore, nel centro pulsante di fuoco? Non si può raggiungere il cuore di nulla, figurarsi del pianeta, mentre si è in vita in questo corpo. Ecco perché lui i corpi li espande: almeno sulla tela può dire di averci provato.


“Io ho vissuto quindici anni a New York e molti in Europa, ma questo non ha cambiato nulla nella mia disposizione, nella mia natura e nel mio spirito latino-americano. La comunione con il mio paese è totale.”


Appunto. Proprio come pensavo. La pittura, l’arte, funziona esattamente allo stesso modo di quando uno si arrabbia e impreca e bestemmia: può essere emigrato anche da quarant’anni, ma per farlo userà sempre la lingua di nascita, quella dell’infanzia e dell’istinto. E se la pittura non è una lingua dell’istinto allora non è niente.


“Io non sono religioso, ma nell’arte la religione è parte della tradizione.”


E infatti i suoi personaggi non sorridono mai. Mai. Bambolotti annoiati che guardano la realtà con sufficienza. Ho talmente tanta superficie in me stesso, tanto spazio in cui muovermi: che me ne faccio del resto del mondo? Questo sembrano voler dire.

Ovunque fissità atemporale. Sono tutti più o meno impegnati ma tutti più o meno immobili, gente in posa da ore per una foto che non verrà mai scattata. E stanno cominciando a stancarsi e ad annoiarsi, a non crederci più. Una maschera di indifferenza tipica dell’arte che raffigura gli dei. Gli dei che non esprimono mai né gioia né tristezza, e soprattutto non ci guardano mai negli occhi.

E non sono dei anche quelli dei quadri di Botero, spesso e volentieri larghi e vasti come Buddha? Divinità grasse e stufe delle vicende umane, provviste di cuori immensi in cui la noia e l’indifferenza occupano così tanto posto che odio e vendetta sono ormai stati sfrattati da millenni.


“Io mi sono convinto che devo essere parrocchiale, nel senso di profondamente religioso, legato alla mia realtà, per poter essere universale.”


Guardali là, Adamo ed Eva. Fiaba. Tutto è fiaba, specie in quelle società antiche al femminile. E spesso il racconto indulge al genere sanguinario/splatter. Basta prendere come esempio la Bibbia. Tutto è una fiaba della bisnonna sulla cui figura matronale e materna e matriarcale ancora si reggono le fondamenta dell’intera casa, casata e famiglia. In realtà molto dell’Occidente è ancora così – per fortuna – anche se tentano di nascondercelo e nasconderselo.

Favola e religione, in una parola che le riunisce insieme e le supera entrambe: mito.


“La mia pittura crea una realtà parallela, una realtà possibile.”


La realtà possibile, e reale, della malinconia. Solo i clown delle sue tele sul circo sorridono un po’, ma a guardarli bene scopri le labbra tristi e i visi mogi, in contrasto con i colori sgargianti. Proprio come il Sudamerica. Qualcosa che mi ricorda per qualche ragione la Sicilia e i silenzi delle sue donne abbottonate strette.

La realtà possibile, e reale, della nostalgia. Una nostalgia che come la malinconia e i soggetti abnormi non è altro che costitutiva, congenita. Non si parla nemmeno di nostalgia del proprio paese di nascita, o dell’adolescenza, o del primo amore. È solo nostalgia. Nostalgia e basta. Come ogni romanzo scritto, ogni dipinto realizzato e ogni tango mai composto.


“Bisogna descrivere qualcosa di molto locale, di molto circoscritto, qualcosa che si conosce benissimo, per poter essere compresi da tutti.”


Di dieci bozzetti ne sceglieva uno, poi buttava giù una macchia veloce in una sola giornata e alla fine ci ritornava su dopo un mese o anche più.

Era il tentativo di essere compreso da tutti?

Tutto quel colore, tutta quella superficie… era il tentativo di essere compreso da tutti?

E poi: compreso nel senso di capito, o compreso nel senso di accettato? Fa una bella differenza.

Io, tornando a quello che ho scritto all’inizio, non so se l’ho compreso, ma di certo l’ho amato. Visitare questa mostra e trovarsi davanti ai suoi quadri originali a grandezza naturale mi ha dato davvero tanto. E non solo ‘in superficie’.

Forse tutto quel colore voleva essere un grande abbraccio all’umanità.

Compreso nel senso di comprendere, includere, inglobare tutto e tutti. Ma perché no? Non è così difficile secondo me ritrovare messaggi di pace e fraternità in tutto quello che si vuole, anche se non era l’intento originario dell’artista.

È improbabile, diciamo, ma non impossibile.


“Quello che faccio potrebbe essere improbabile, ma non è impossibile.”

Fernando Botero Angulo



© Maurilio Di Stefano, 2017

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