GALLERIA BORGHESE
- Milo
- 23 set 2018
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 17 nov 2018
SPLENDORE A PORTATA DI MANO
La casualità più totale.
La mancanza assoluta di significato del tempo.
Il piacere del ritardo del piacere.
È tutte e tre le cose, anche se non per forza in quest’ordine. Anzi: per forza non in quest’ordine.
È la Galleria Borghese di Roma, custodita all’interno dell’omonima villa.
Praticamente visitabile solo su prenotazione, e anche con un certo anticipo, non si tratta che di due piani. Uno è la pinacoteca, l’altro è Sculture più Caravaggio. Entrambi uno splendido viaggio che vale molto più del costo del biglietto d’ingresso.
Mi viene da ridere se penso a quante volte sono passato qui intorno da ragazzino, per non parlare da adolescente e infine anche da adulto, senza immaginare che dietro quella parete ci fosse l’originale di quello che avevo sempre visto riprodotto dappertutto sui libri e su Internet. Senza di fatto saperne nulla. E senza preoccuparmi di sapere, che è peggio.
Come si dichiara l’imputato? Colpevole, Vostro Onore. E sprovvisto di alibi, visto che sono nato e poi ho abitato a Roma per i primi 24 anni della mia vita.
Per puro caso mi ritrovo a cominciare dal piano superiore, la pinacoteca.
Ora, uno si aspetterebbe delle opere d’arte di suprema qualità da cui essere rapito, e invece si ritrova a fissare incantato il soffitto. Il contenitore, la villa stessa, è bello e prezioso almeno quanto quello che c’è dentro. Mi sento come una donna che si vede regalare un collier di diamanti dentro un cofanetto d’oro massiccio. Immagino ci si debba sentire doppiamente lusingati, ma per quale delle due cose si deve esattamente ringraziare per prima?
Il soffitto, dicevo. Un mondo a sé che buca la superficie dei tetti e apre porte dimensionali. Colore, cieli, falci e tridenti. Nuvole e amorini, cariatidi dipinte con muscoli dipinti che sorreggono i marmi dipinti della volta del cielo – dipinta.
Solo che sono io a sapere che sono dipinte, le cariatidi non lo sanno. Per questo se ne infischiano, di questa come ogni altra noiosa regola della percezione umana, e continuano ad essere vive, a parlare tra loro, a svolgere il proprio compito ognuna con una diversa espressione del volto – che è vero almeno quanto il mio.

Allora, quali erano le tre cose che avevo detto all’inizio? Ah, sì: l’assoluta mancanza di significato del tempo. Si può partire da questa. Nel senso che il tempo in assoluto non vuol dire nulla. Proprio come i numeri. Se l’arte e la bellezza li annullano entrambi con tanta facilità, non devono essere poi così potenti come crediamo.
Di fronte all’Allegoria del Sonno di Alessandro Algardi vorresti addormentarti tu stesso, e per sempre.
Davanti al Presepio di Giorgio Vasari vorresti essere tu, per un attimo, uno dei Re Magi, o anche solo un pastore, ma non nella realtà, proprio nel quadro dico, per sapere cosa si prova ad ammirare quella luce.
Davanti all’Amor Sacro e Amor Profano di Tiziano vorresti essere tu un bimbo che rovista con la mano nell’acqua di una fontana, sicuro ci troveresti dentro più che in una vita intera sulla terra.
Di fronte al tondo della Madonna col Bambino di Botticelli vorresti tu essere quel bambino e riposare in quell’abbraccio.
E di fronte alla Deposizione di Raffaello desideri persino di essere tu quel Cristo morto, o quella pallida madre che perde i sensi per il dolore, perché se proprio deve farsi buio nei tuoi occhi allora che sia almeno in mezzo a quei colori.

Ma non dovevamo parlare del tempo? Appunto. Smarrire il tempo terrestre e mortale per aiutare i confini del nostro Io a sbiadire e perderli del tutto. Così da poter assumere ogni forma e persona: il pastore, il bambino, l’angioletto, Gesù di Nazareth, la Madre, il Battista, ognuna e nessuna e tutte insieme.
Fuori dal tempo e al di là di se stessi, dove uno e tutti finalmente coincidono e non c’è niente da contare né confini a separare. Se esiste la reincarnazione, eccola qui davanti ai miei occhi: una divina sindrome di Stendhal, e io ne faccio parte.
È una sensazione così potente che persino le parole mancano, e mancano di significato. Una dimostrazione pratica veloce veloce? Detto fatto.
Fino a oggi credevo che Sodoma fosse solo una città di cui si parla nella Bibbia, invece è anche il nome di un pittore che fu capace di ritrarre una Pietà meravigliosa. La mano grigia del Gesù morto è – non ‘sembra’, è – così vera che chiede di essere presa e stretta per ritrovare un po’ di calore.
Non c’entra la religione né il monopolio del soggetto sacro: tutta l’arte è sacra e la pietà è un sentimento di tutti gli uomini, non solo di quelli credenti in senso stretto. O almeno così dovrebbe essere, per come la vedo io e per quello che sono riuscito a imparare da Dostoevskij.
E poi che vuol dire il tempo di fronte a opere come queste? Come si fa a capire quando è il momento giusto per distogliere lo sguardo e passare alla successiva? E chi dovrebbe dircelo, visto che la voce interiore vorrebbe soffermarsi un’eternità di fronte a ogni tela?
È questo che mi porta al secondo punto sull’elenco: la casualità totale.
Tanto per fare un altro esempio: quando passi alle sculture e ti trovi davanti al Ratto di Proserpina, o al David, o ad Apollo e Dafne, tutte firmate Gian Lorenzo Bernini, come fai a decidere quando è ora di passare oltre? Semplicemente non si può.

Neppure il fatto che il tempo concesso per la visita sono solo due ore basta a convincerti. Ti sembra che se insistessi a guardare con l’energia giusta potresti dilatare il tempo a piacimento. Perché è così che funziona in quell’altra dimensione, quella in cui secondo me Bernini scolpiva, tanto per dirne una.
E invece in questa?
In questa non ti resta che la pura casualità. A un certo punto, arbitrariamente, devi farti una violenza e cambiare stanza, o Ade e la sua mano vera rapiranno anche te oltre che Proserpina, e tu ti sentirai meno reale, fatto di nebbia, in confronto a quella coscia fatta di ombra e burro.
Si potrebbe dire che tutte le sculture di Bernini che sono qui dentro siano un monumento alla casualità. Allegorie della Casualità personificata, mi piace. Non è mai ora di andarsene, punto e basta. Limitano le entrate a scaglioni di due ore solo perché altrimenti la gente starebbe a girarci intorno per settimane. Una volta finito il giro si può solo constatare disarmati che è ora di ricominciarlo. E ogni volta si comprende qualcosa di nuovo, se non della statua addirittura di un mondo che è ben oltre.
Allora non ti resta che giocarci su, prenderla alla leggera, proprio come la vita, o ne vieni sopraffatto. Questo ci porta direttamente al punto terzo: il piacere del ritardo del piacere.
È qualcosa di noto a tutti gli uomini, nulla di originale, e io mi diverto ad applicarlo in queste sale.
Ecco che appena entro nella stanza intuisco con la coda dell’occhio il Giovane con canestro di frutta di Caravaggio. L’ho visto mille volte in riproduzioni varie, e qui dal vivo è paradossalmente identico. Lascivo e annoiato allo stesso modo.
Me lo immagino.
Che parla lento.
Con le pause.
Quasi a fatica.
Mettendo un punto.
Tra una frase e l’altra.
Persino in mezzo.
Anche lui prova piacere nel ritardare il piacere. E allora prima mi guardo per bene le opere minori e solo alla fine cedo e vado lì da lui. Voglio evitare di arrivarci troppo presto, perché so che troppo presto finirà. Così me lo tengo per ultimo. Ritardiamo insieme il piacere del nostro incontro. Lo so io e lo sa lui, tanto che ci scambiamo un sorrisetto d’intesa che il resto dei visitatori non nota.
La stessa complicità era nello sguardo fisso e languido della giovane donna con unicorno di Raffaello, con cui ho ritardato altro piacere di comune accordo. E ancora la stessa cosa con la Verità di Bernini, che al contrario di me sa qual è la verità appunto, ma è così dolce e comprensiva da donarmene un pezzetto e rivelarmene il segreto.
È il segreto della luce del sole che tiene nella mano. La stessa luce che da Occidente illumina il volto della Madonna dei Palafrenieri di Caravaggio e il piedino del Bambino che forte della frapposizione di quello della Madre schiaccia la testa del serpente. È la stessa luce che illumina la metà sinistra del volto di David in maniera identica alla metà sinistra della testa decapitata di Golia. È la stessa luce che inonda la schiena di Caravaggio travestito da Bacco – ma potrebbe anche esser stato Bacco a travestirsi da pittore, chi può dirlo con certezza…
È la stessa luce che fa luce sull’illusione del tempo e della casualità di questa vita, illuminando invece il vero piacere e la vera bellezza di cui tutta l’arte è intrisa.

È la stessa identica luce che ora ritroverò di fuori, tra i vialetti di Villa Borghese, sotto un sole caldo e splendido di fine settembre, in un mondo che più lo guardo e sempre meno reale mi sembra rispetto a quello che riposa da secoli all’interno di queste mura.
© Maurilio Di Stefano, 2018
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