REGRESSIONE DOLCE
- Milo
- 2 gen 2019
- Tempo di lettura: 2 min
© Maurilio Di Stefano, 2019
Mi ritrovai a passeggiare per le stesse strade in una notte d’inizio. In un tempo che non era più mio. In una città che lo era per la prima volta. Le chiese chiuse e spente. Le croci senza più alcun significato se non l’amore. Ma gli occhi delle statue, le loro mani tese al cielo, i loro corpi incappucciati mi parlavano del sole a mezzanotte. I morti sul rogo, pietrificati in cenere, si scostavano al mio passaggio. Quasi accennavano un inchino di riverenza. I soliti angoli si rivestivano di nomi nuovi, schiudendo un doppio velo trasparente che a me era dato attraversare. Tutto era imperfezione, e perfetta la meraviglia che ne risultava. Nella frenetica agitazione dell’aria, la notte respirava luce. Le maschere si liberavano dei loro volti. Gli affreschi ai soffitti colavano via dietro le finestre dei palazzi, partorendosi al mondo una seconda volta. Io assorto, imbarazzato. Perché quella musica, tutta quella musica, soltanto per me? La risposta era che le mie mani erano tornate bambine. I miei piedi erano tornati bambini. I miei denti erano tornati bambini. I miei occhi vedevano tutto. I miei occhi vedevano tutto per la prima volta. Distogliere lo sguardo e subito dopo ripeterlo era ancora la prima volta. La morte era estranea a ogni tempo verbale. Tutte le opere d’arte mai concepite rivivevano attraverso le mie guance. Il corpo di dio era sdraiato sulla volta del cielo e le bestie delle costellazioni erano precipitate sulla terra in fiori stanchi. Ma bellissimi. I ponti non avevano più alcuna fretta di attraversare il fiume. Il sogno riprendeva esattamente da dove s’era interrotto. I grandi re degli uomini si rincorrevano giocando alla guerra con spade di legno. Le fontane imparavano finalmente l’esercizio della scrittura.
E io ridevo. Ridevo quello che avevo creduto soltanto un sorriso. Perché al di là del sipario delle fronde mi si rivelava l’inesplorato scenario dei simboli. Ogni cosa accadeva al di là della soglia. Ogni cosa accadeva senza sosta. Il cuore manteneva in vita se stesso. Soffrire non era più tanto doloroso. Le chiavi sepolte nella terra umida s’arrampicavano alle vene per tornare a baciare le serrature degli scrigni. E credendo di riscoprire la città dove una volta fui bambino, capii che era invece lei a restituirmi neonato.
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