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CATACOMBE

  • Immagine del redattore: Milo
    Milo
  • 13 ago 2018
  • Tempo di lettura: 4 min

Una cosa che si può dire delle catacombe è che vista una viste tutte, via.

Loculi e cunicoli, alcuni più larghi e alcuni più stretti, più o meno labirintici, più o meno claustrofobici, per il 97% della loro estensione chiusi al pubblico.

Eppure.

Io personalmente sono stato dentro quelle di San Callisto e quelle di Sant’Agnese a Roma e in quelle di San Giovanni a Siracusa. Per le cose gotiche, lugubri o che riguardano anche da lontano la morte nutro qualcosa che non chiamerei fascino, ma di sicuro una predisposizione. Non mi eccitano né divertono, ma neppure mi infastidiscono. Né mi inquietano. Diciamo che sono parte del gioco. Sarà che ultimamente sto provando a imparare a pensare all’aldilà come un oltre-me che è sempre-me.

Ecco perché ogni volta che scendo sottoterra a visitare delle catacombe, oltre che a godermi il fresco perché data l’escursione termica raccomando di farlo d’estate, mi chiedo: al di là del valore storico e forse di quello religioso, cosa mi può dire un enorme cimitero sotterraneo completamente vuoto? Che significato ha per me?

La prima risposta è non lo so. Allora mi ci sono messo a pensare.

E ho scoperto che la cosa che mi faceva pensare di più è che ovunque mi giri, sia stando a quello che raccontano le guide sia stando a quel che io percepisco, di tutto si tratta tranne che di morte. Semmai il contrario: tutto parla di vita, quaggiù.

Tanto per cominciare non tutte le catacombe erano sotterranee all’origine. Alcune erano cimiteri a cielo aperto, altre venivano ricavate da antichi acquedotti o cisterne di epoca greco-romana, e se esistono cose più vive dell’aria e dell’acqua ditemi quali sono.

Poi c’è la tradizione. I Cristiani che qui si riunivano, che banchettavano in onore dei defunti. Erano talmente tanto devoti alla vita che persino coi morti condividevano vino, latte e miele, passandoglieli da appositi forellini.

Un Occidente diverso, che ancora non era così separato dalle idee orientali e da certe pratiche che ci ricordano gli Egizi. Un mondo che ancora ricordava che tutto della morte riguarda ferocemente la vita (non è affatto vero il contrario).

E tutto della morte riguarda anche la nascita, che poi fa lo stesso; non a caso i corpi dei defunti venivano seppelliti adagiati in posizione fetale.

Del resto è così difficile da credere? Basta guardare un qualsiasi orologio. Il tempo e l’esistenza sono un circolo e gli orologi ne sono la prova. Una volta arrivata a metà del giro, grosso modo verso il numero 6, la lancetta non va mica avanti. Torna indietro. E lo fa senza esitazioni e senza sentirsi stupida per questo. Arrivata lì, automaticamente disimpara a scrivere da sinistra a destra e comincia a farlo nell’altro verso. Il ritorno del viaggio non è che un altro viaggio d’andata, solo percorso dal lato destro del cervello.

È allora ti rendi conto che la vita è tornare alla nascita. La chiamano morte solo per un vezzo linguistico e il gusto che hanno di complicarsi le idee.

Il giro – e non la linea – va dalla nascita alla nascita, e in mezzo non può che esserci un’orgia di creazione. O creatività, non saprei davvero dire la differenza.

Venivano chiamati ‘fossori’. Mica male come lavoro: scavare catacombe. Strappare spazio alla terra per donarlo alla morte. In fondo l’uomo moderno lo fa di continuo devastando il pianeta.

Ma almeno, grazie a quella gente che ha scavato e scavato, oggi noi possiamo camminarci dentro, dopo aver pagato il biglietto d’ingresso, certo, e metterci in gioco, guardare noi stessi da un punto di vista diverso. Un punto di vista esterno e sotterraneo, cosa c’è di meglio?

E vedere finalmente come ce la caviamo con quelle domande e quelle prove…

Che la pietra ha occhi lo sappiamo tutti, ma che ci guarda sempre senza sorridere?

Che parla con la voce senza sesso della Terra è una cosa evidente, ma allora come mai quella voce somiglia tanto alla nostra?

E se le sue frequenze, che chiamiamo macabre e lugubri e funeree, ci inquietassero solo perché/quando siamo noi inquieti dentro?

Non è una voce che parla, è una voce che sa. La differenza è sottile. ‘Strepitus silentii’, la definiscono. Il clamore del silenzio. Un poetico ossimoro per raccontare in due parole che il silenzio è una pratica complicata e indispensabile, per quanto assordante. Che è solo nell’assenza di parole che metti davvero a fuoco pensieri, paure e sentimenti. E che solo nella muta immobilità puoi conoscere il suono del cuore che batte e ricordare… no: reimparare quanta vita ti porti dentro ogni istante.

E allora sì, le catacombe vista una viste tutte.

Ma è proprio questo il bello: sono vasi comunicanti. Formano un reticolo nel sottosuolo in cui scorre il sangue della vita. Una vita come al solito a metà tra il comico e il cinico, perché è fatta di luce e aria eppure guarda caso le cose che si conservano meglio sono quelle che restano più a lungo sepolte sottoterra. Ma fa niente, siamo abituati a paradossi anche peggiori.

Quello che stupisce davvero è quella vita non corrotta e non corrosa che scorre nel ventre del suolo dentro vene fatte di tombe. Non per niente tutti i morti della storia dell’uomo sono ancora qui, su questa terra, tutti quanti, dal primo all’ultimo, con i loro atomi ridistribuiti in una forma o nell’altra. E in qualche modo, che ci piaccia o no, noi siamo costituiti di loro a ogni livello dell’esistenza.

La chiamano morte, ma di nomi più adatti ce ne sarebbero a palate. Tipo, per dirne tre a caso: nascita, scrittura, memoria.

In ogni caso, comunque la chiamiamo resta quella la ragione per cui continuiamo a costruire cimiteri, al di là del bieco business. A sottrarre terra alla terra. A far visita ai ‘loro’ sepolcri persino quando sono completamente vuoti e vecchi di duemila anni.



© Maurilio Di Stefano, 2018

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