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E IO CI STO (1): ANDATA

  • Immagine del redattore: Milo
    Milo
  • 15 gen 2017
  • Tempo di lettura: 8 min

Aggiornamento: 17 nov 2018


Si dice che in America tutto è ricco, tutto è nuovo  puoi salire in teleferica su un grattacielo e farti un uovo  io cerco il rock'n'roll al bar e nei metrò  cerco una bandiera diversa senza sangue sempre tersa  ma ci ripenso però, mi guardo intorno per un po' 

e mi accorgo che son solo  in fondo è bello però il mio paese e io ci sto


Rino Gaetano, E io ci sto



Se mi avessero detto che appena un anno dopo mi sarei ritrovato a camminare sotto il sole, con uno zaino sulle spalle, a fissare vecchi tappi di bottiglia incastrati nel bitume di un marciapiede di Via di Portonaccio, sicuro sarei scoppiato a ridere.

So che può sembrare l’incipit di un romanzo beat – certo, scritto mezzo secolo in ritardo, con una prosa scadente e ambientato a Casal Bertone, Roma, Italia – ma è la verità. Tutta la verità. Nient’altro che la verità.

Vostro Onore.

E magari sarei scoppiato a ridere anche se mi avessero detto che su Via di Portonaccio, sudato fradicio ma sempre stoicamente vestito di nero perché il Metal non è un genere musicale ma uno stile di vita, mi ci sarei ritrovato a camminare ascoltando canzoni di Rino Gaetano.

Ora, che Rino Gaetano vi piaccia o meno è del tutto irrilevante. Passate oltre. Serve solo a me per approcciare il discorso e arrivare al succo. E giuro che lo sto per fare.

La mia storia non è particolarmente originale, ma è la mia, e dunque è giusto che per me sia così importante da sentire il desiderio, e il bisogno, di raccontarla.

La faccio breve. Ci provo.

Nell’aprile del 2015 sono arrivato al culmine di un percorso di esasperazione, disinnamoramento del mio paese e incremento della voglia di andarmene durato anni. Solo che alla fine non volevo essere, più che altro per me stesso, uno dei tanti che pubblica continuamente su Facebook link del tipo ‘Molliamo tutto e apriamo un bar sulla spiaggia a Cuba’ e poi si ritrova ogni estate a dare controvoglia due spicci al parcheggiatore abusivo di Torvaianica. Senza offesa.

Così, né troppo vecchio né troppo giovane (29 anni), con in tasca pochi soldi, una laurea in Medicina lasciata a metà perché imposta dalla famiglia, un diploma di Conservatorio e centinaia di pagine piene di parole che come ogni scrittore reputo tutte quante geniali dalla prima all’ultima, sono saltato su un aereo per Los Angeles, California.

Ora, che gli Stati Uniti vi piacciano o meno è del tutto irrilevante. Passate oltre. E’ semplicemente una terra con cui mi sono sempre sentito intimamente connesso – la terra, sottolineo, non necessariamente la gente – e non l’ho scelto io. Sarà per quelle storie che raccontano sulla reincarnazione e la memoria delle nostre vite precedenti, io questo non lo so.

So solo che con nient’altro che uno zainetto nero e una valigia rossa sono atterrato a LAX, l’aeroporto internazionale della Città degli Angeli, senza conoscere nessuno, neppure la proprietaria dell’appartamento in cui avevo prenotato una stanza per due mesi tramite Airbnb.

Due mesi spesi a cercare un lavoro, uno qualsiasi, come insegnante di musica, batterista e/o scrittore (come dico sempre, mi piace avere più di un modo per restare povero). Due mesi a cercare uno sponsor che mi aiutasse ad ottenere un visto lavorativo per gli USA. Due mesi a parlare soltanto in Inglese, pensare soltanto in Inglese, sognare soltanto in Inglese, e scrivere soltanto in Inglese poesie e pensieri che nessuno leggerà mai, con un piccolo taccuino in mano, seduto sul cemento all’ombra dei piloni di sostegno dell’Interstatale 5 a South Central L.A., un quartiere che decenni fa era la Hollywood dell’epoca mentre oggi è una delle zone dotate in assoluto di meno appeal di tutta Los Angeles, un ghetto riservato a bianchi poveri, afroamericani poveri e immigrati sudamericani chiassosi e variopinti (e poveri).

Insomma, sarà che mi è sempre piaciuto Bukowski, sarà che mi sono sempre piaciuti gli stereotipi bohémien e decadenti, ma di certo sono stati i due mesi migliori della mia vita. Di quelli che ti cambiano, che cambiano te e il tuo modo di vedere le cose. E non che questo sia necessariamente un bene, ma di certo è un dato di fatto.

Comunque, anche se io mi ostino a fregarmene, la vita reale non è fatta solo di vino rosso, poesie scritte a mano e incontri casuali. La gente là fuori vuole da te obiettivi solidi, risultati concreti, curriculum vitae, estratti conto, scalate sociali, stabilità, sicurezze, garanzie, assicurazioni; la gente vuole sapere ‘sì vabbene ma cosa fai di lavoro?’

E allora da qui in poi procederò spedito, perché la parte poetico-letteraria da malinconico sbrodolamento autoreferenziale è già finita. Siete salvi.

Ho trovato uno sponsor, un cittadino americano, chitarrista e padre di quattro figli, che è diventato per me come un fratello maggiore e viste le mie doti e la mia passione per la musica ha accettato di farmi da garante davanti al governo degli Stati Uniti.

All’inizio di giugno sono tornato in Italia. Ho assunto, per sveltire e facilitare le pratiche, un legale della Florida specializzato in visti per immigrazione e in particolar modo quelli per artisti.

Ho messo insieme lo storico di tutti i piccoli traguardi musicali e artistici conseguiti in una vita. Ho firmato documenti, scannerizzato documenti, inviato documenti. Ho aspettato qualche mese. Ho ottenuto un visto approvato e validato dall’USCIS, che sta per United States Citizenship and Immigration Services. Si chiamava ‘O1’ ed era uno dei visti più solidi possibili da ottenere: un visto specifico per artisti o lavoratori legati in generale al mondo dell’entertainment che alla sua scadenza, dopo la bellezza di tre anni, avrebbe anche potuto spianarmi la strada per richiedere una Green Card. Un visto che di fatto mi ha aperto le porte degli Stati Uniti e che mi consentiva di restare, risiedere e lavorare ovunque su territorio americano – sempre in ambito legato alla musica, volendo rispettare le leggi – fino al settembre del 2018.

I nailed it, come direbbero lì.

E tutto per un ammontare modico che, in Euro, non arriva neppure a cinque cifre, viaggio aereo incluso. Questo per dire, apro una parentesi, che per cambiare vita anche solo per un po’, se mai qualcuno lo desiderasse ma ne fosse spaventato, basta proprio poco: un po’ di voglia più che il coraggio, un po’ di mesi a guardare serie TV per imparare la lingua, e una cifra coperta quasi del tutto dalla vendita di un’auto usata. Anzi, se cercate un paese europeo non serve nemmeno ‘sprecare’ i soldi in visti vari, non serve vendere una casa, e soprattutto la vostra patria non ve la toglie nessuno ed è sempre lì ad aspettarvi se le cose dovessero andare storte, per fortuna. Ne so qualcosa.

Comunque, tornando a Los Angeles, tutto questo ha poca importanza, perché io sono durato sei mesi. Non per mia scelta.

Sono atterrato – non più da turista in cerca di sponsor ma da emigrante in cerca di futuro – di nuovo a LAX nel gennaio del 2016. Il 10 luglio dello stesso anno ero a Fiumicino, Roma, Italia, con addosso gli stessi panni da 72 ore consecutive.

Cos’è successo nel mezzo? Facile.

Ho cercato lavoro a Los Angeles nel campo della musica – ero andato per fare l’artista e l’artista volevo fare. Ho preso la patente californiana. Ho comprato una macchina, una Honda Accord del 2000. Sono riuscito a suonare, dopo poco più di un mese che ero lì, allo storico Whiskey a Go Go, su Sunset Boulevard a West Hollywood, come batterista turnista di una attrice/cantautrice che resterà sempre nel mio cuore.

Poi, continuando a cercare, poco prima di Pasqua ho trovato su Craigslist l’annuncio di una band rock/metal che cercava un batterista per un anno di tour in due continenti, vitto e alloggio inclusi per tutto il periodo di ‘convivenza’ con loro.

Ho fatto un’audizione. Poi un colloquio. Sono stato preso. You got the gig, come direbbero lì. Ho firmato un contratto per un periodo di prova.

Ho rivenduto di corsa la mia auto – e per fortuna, o adesso sarebbe ancora parcheggiata a lato di un marciapiede a Chatsworth – e sono partito in tour. Era il 15 giugno 2016.

Una band indipendente, club, locali e pub di piccole e medie dimensioni, tanto lavoro, tanti chilometri alla guida di un grosso camper più rimorchio, ma anche tempo libero, posti da vedere, persone da conoscere e vita da vivere. Insomma un sogno che si avvera, per gli standard assolutamente modesti del vostro affezionatissimo Milo – nickname, per la cronaca, che ho iniziato ad usare proprio a Los Angeles perché Maurilio davvero non lo sapevano pronunciare (è complicato anche per certi italiani, figuriamoci).

A nemmeno trent’anni, cosa me ne poteva fregare di qualunque altra cosa?

Ero libero, facevo il batterista, e suonavo in posti che fino ad allora avevo solo sentito nominare nei film: Sacramento, California; Portland, Oregon; Spokane e Seattle, Washington State.

Poi, finito di risalire verso nord la costa ovest degli USA, ancora più su per alcune date in Canada: Vancouver, Grande Prairie, Edmonton. Persino un paio di giorni da favola, durante i day off senza serate, ospite nella casa sul lago della famiglia del chitarrista della band (un trio di canadesi) che stava condividendo con noi in quel momento una parte delle serate e del viaggio in camper.

Poi, come un sacco di cose belle, la fine; altrimenti che romanzo noioso sarebbe la vita, mai un colpo di scena, mai un dramma, mancherebbe completamente la crescita e lo sviluppo dei personaggi. Una fine rigorosamente imprevista tra l’altro – I didn’t see it coming, come direbbero lì.

Il mattino successivo all’ultima serata prevista in territorio canadese, per la precisione Winnipeg, Manitoba – sono sicuro che da qualche parte su Facebook esiste una foto dove sorrido, estasiato come un bambino, con ancora addosso la maglietta sudata di batteria – guidiamo di nuovo verso sud, verso il confine, perché la sera si suonerà a Fargo, North Dakota, USA.

Ma io a Fargo, North Dakota, Usa, non ci sono mai arrivato.

Sceso dal camper al posto di controllo dell’ufficiale di frontiera statunitense insieme ai tre compagni di viaggio canadesi, vengo fermato, esaminato in lungo e in largo e poi, dopo che mi vengono requisiti tutti i documenti e il cellulare, vengo spedito in una stanza per gli interrogatori mentre il resto della mia band e il camper con tutta la mia roba se ne entrano in North Dakota e si mettono ad aspettarmi invano – sono cittadini americani, tutto fila liscio per loro.

La mia vita, o per lo meno la mia vita così come me la stavo provando a costruire (e ci avevo quasi creduto), finisce. Anche se io lo capirò solo una decina di ore dopo. E’ l’8 luglio 2016.

Non voglio essere melodrammatico né concedermi alcun tipo di retorica autocommiserazione, sia chiaro. I problemi veri sono altri, i dolori veri sono altri, e tutti conosciamo gli Stati Uniti. Inoltre, anche dopo quello che mi è accaduto, credo fermamente che trasferirsi in un paese straniero significhi automaticamente accettare le sue regole.

In altre parole ho solo avuto sfiga. Se fossi capitato lì in un altro momento o avessi (ri)attraversato in un qualsiasi altro punto magari non sarebbe successo nulla. Il classico momento sbagliato al posto sbagliato. L’ho detto che mi piacciono gli stereotipi.

La mia intera mattinata passa nell’attesa delle pratiche che riguardano i miei amici canadesi – proprio così, tre persone splendide, che ci hanno ospitato nella loro favolosa casa sul lago nel Saskatchewan come ci conoscessero da una vita, e l’ufficiale di frontiera americano, coadiuvato da due solerti colleghi, poliziotti anche loro, li sta respingendo. Non gli permette di varcare il confine con gli USA. Li sta cacciando, insomma, e nemmeno loro vedranno mai Fargo. Per lo meno non oggi. E questa procedura di rigetto richiede qualche ora: la burocrazia.

I tre canadesi si preparano a tornarsene indietro, rigorosamente a piedi, a testa bassa, back to Canada, che però per loro è casa. A proposito: anche la loro roba è ancora sul camper della mia (da poco ex) band, chitarre incluse.

Ci abbracciamo. Ci diciamo addio. Si è fatta l’una. Tra meno di nove ore li rivedrò.


© Maurilio Di Stefano, 2017



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