E IO CI STO (2): RITORNO
- Milo
- 22 gen 2017
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 15 nov 2018
Vengo interrogato. Ripetutamente. Poi messo in attesa da solo nella stanza, come nei telefilm. Poi interrogato di nuovo, stesse identiche domande. Prima un agente, poi l’altro, poi di nuovo il primo. Il poliziotto buono e quello cattivo, come nei telefilm.
Rispondo a tutto. Del resto non ho nulla da nascondere, e gli ‘impicci’, come diremmo a Roma, proprio non li so fare. Eppure vengo lo stesso accusato di aver corrotto il mio sponsor l’anno prima così da poter ottenere il visto – sulla base di nessuna prova, perché non ce ne sono, visto che non è vero. Vengo accusato di aver frodato il governo degli Stati Uniti – sulla base di nessuna prova, perché non ce ne sono, visto che non è vero. E quando cerco di far notare al poliziotto che il governo che mi ha approvato e applicato il visto ‘O1’ sul passaporto è il suo, non il mio, non ottengo che uno sguardo dumb e inespressivo.
Il collega invece è più loquace, e sottolinea che se sto viaggiando con una band così poco famosa è evidente che come musicista non sono un granché – cosa che per l’amor del cielo posso anche confermare ma che non costituisce deterrente sufficiente per privare di un visto ‘O1’ una persona a cui è stato accordato – e che il mio contratto è solo un contratto di prova e io non sono nessuno e lasciarmi (ri)entrare in territorio statunitense dal loro punto di vista equivale ad introdurre in patria un potenziale disoccupato, nullafacente, accattone e magari anche futuro criminale.
Fuori sta facendo buio. Comincia a diluviare.
Mi viene chiesto di firmare la mia dichiarazione giurata. Mi vengono prese le impronte digitali – nulla in contrario, ma le avevano già. Mi viene fatta una fotografia – nulla in contrario, ma l’avevano già.
La luce del giorno che trapela dalle finestre si fa sempre più fioca e io sono da solo in tutto l’edificio in compagnia esclusiva di tre amichevolissimi poliziotti. (Il sarcasmo, lo sottolineo, è rivolto alla mia sfortuna e alla mia paura del momento, non ai suddetti appartenenti alle forze dell’ordine, che forse stavano semplicemente cercando di svolgere il loro lavoro, seguire le regole imposte dall’alto o magari solo di guadagnare qualche punto sul curriculum movimentando un po’ il grigiore dell’ennesima giornata di campagna in un posto situato ‘nel buco del culo del mondo’, come direbbero lì, dove passa un’auto ogni tre ore e un camion ogni sei.)
D’un tratto comincio a rabbrividire. La mia fervida immaginazione da scrittore fallito non qualificabile per un visto ‘O1’ sta cominciando a suggerirmi che potrebbero staccare le telecamere, picchiarmi, abusare di me. Perché no? Se succede nei telefilm succede anche nella realtà. Tanto, se lo facessero e si mettessero tutti e tre d’accordo per testimoniare giurando che li ho aggrediti in preda alla rabbia, a chi crederebbe il loro governo, a loro o a me?
Tra l’altro, inutile dirlo, questi sono tutti e tre armati, e da queste parti non è mica un problema estrarre e fare fuoco, lo insegnano i film.
Ma nulla di tutto questo succede, grazie al cielo.
In compenso succede dell’altro.
Mi viene finalmente detto qualcosa che a voi ho anticipato mediante un’inflazionata tecnica letteraria ma che io quel giorno non avevo ancora avuto modo di capire, qualcosa del tipo: Tranquillo, abbiamo quasi finito qui, ora ti facciamo firmare quest’ultimo documento e presto te ne potrai tornare in Canada da libero cittadino.
Voglio dire, le parole non sono esattamente queste ma il senso sì.
Tornare in Canada.
E allora capisco.
Quindi, chiedo per sicurezza, non si sa mai, giusto per dare a Dio la possibilità di rendersi conto che sta facendo una cazzata e ripensarci (questa non è mia, la scrisse Stephen King in IT), quindi, agente, lei mi sta dicendo che da stasera in poi io non sono più in possesso di un visto ‘O1’.
E lui risponde un laconico ‘Correct’, come se avessi chiesto al cameriere se ho capito bene, che il contorno di patatine è incluso nel piatto che sto ordinando.
Perfetto. Tutto chiaro.
Mi metto a piangere, ma solo per pochi secondi: la burocrazia.
Sono ormai le nove di sera, mi trovo in quest’ufficio da quasi undici ore filate e sì, l’ho capito solo ora: mi stanno mandando via. Mi stanno negando l’accesso – o dovrei dire il rientro – in territorio statunitense. Il mio visto “OU UAN” è revocato. Scomparso. Kaputt. Depennato sul passaporto con un evidente tratto grassoccio di pennarello nero.
Mi viene chiesto, gentilmente, di firmare l’ultimo documento, quello dove si ufficializza la mia posizione di ‘rejected’. Mi trema la mano. Non riesco a scrivere. Chiedo scusa a nessuno degli agenti in particolare.
Yes, I understand, mormora uno dei tre.
With all due respect, sir, I don’t think you do, gli rispondo con voce sorprendentemente ferma e pronuncia niente male, e almeno questa frase a effetto come si deve mi è uscita forte e chiara proprio come succede nei romanzi: sarà il più bel ricordo, l’unico decente, che riuscirò a strappare a questa giornata.
L’ufficiale tace come l’avessi schiaffeggiato.
Ma tranquillo – mi consola il suo collega, quello loquace, altro simpatico ufficiale di frontiera che mi ha persino negato la telefonata all’avvocato che avevo richiesto come nei telefilm – non è nulla di penale e non stai venendo accusato né denunciato di nulla, ti stiamo solo revocando un visto.
Tranquillo, puoi tornare da turista o richiedere un qualsiasi altro visto per gli Stati Uniti in qualunque momento.
Tranquillo, se reputi la nostra decisione un abuso, o un’ingiustizia, puoi opporti, è un tuo diritto; ti condurremo in un istituto penitenziario dove potrai attendere – sempre in tutta tranquillità – finché un giudice non esaminerà il tuo caso.
Allora, caro ‘border officer’, anche nella mia città natale, Roma, c’era una volta un tizio che si chiamava Tranquillo, ma secondo il folklore popolare non ha fatto una gran bella fine.
Questo è quello che vorrei ribattere all’irreprensibile ufficiale di frontiera, ma dubito che capirebbe. Così, in risposta a tutte le sue domande, gli concedo un severo ma giusto: GO FAQ YOURSELF.
Me ne torno in Canada, grazie.
Me ne torno in Canada a piedi, nel buio serale, sotto una pioggerellina battente e fastidiosa.
* * *
Ma poteva farlo? Ma perché non lo denunci? Ma nemmeno la telefonata ti ha lasciato fare? Ma non era un tuo diritto? Ma perché non chiami il tuo sponsor? Ma perché non chiami il tuo avvocato? Ma perché non chiami l’ambasciata, la Corte Marziale, Obama?
Perché non mi va.
Sono pigro.
Mi piacciono gli stereotipi, i libri, la pace, e non mi piace soffrire più del dovuto, né sprecare soldi e tempo, né litigare. Che posso farci se sono nato così?
Ad ogni modo, la risposta alla prima domanda è: sì, poteva farlo. L’ufficiale di frontiera ha carte blanche per tutto ciò che reputa una minaccia. Beato lui, io non ho potuto nemmeno scegliere a che università iscrivermi a diciannove anni.
Eppure adesso anche io ho carte blanche, in un certo senso. So per certo quello che non posso fare, ossia (ri)entrare in America, ma quanto al resto sono l’uomo più libero del mondo. Salvo che in questo momento, 8 luglio 2016, poco prima di mezzanotte, sono un po’ troppo scosso per capire cosa fare di questa libertà.
Per adesso mi accontento di chiamare al cellulare il trio di amici canadesi che sono stati respinti al mio fianco, e lo faccio utilizzando il telefono dell’ufficiale di frontiera, stavolta canadese, che è gentilissimo a prestarmelo e mi dice che dal suo punto di vista è tutto ok e sono del tutto autorizzato e perfino ‘welcome’ a restare in Canda come turista per un periodo non eccedente i sei mesi da oggi.
Be’, thanks but no thanks, come direbbero lì.
I miei amici canadesi sembrano più sconvolti di me quando li aggiorno sull’accaduto. Ma dio sia lodato perché hanno preso una camera di motel proprio nella cittadina a due passi dal confine e mi ospitano con loro senza neppure volere un soldo per il letto.
La mattina seguente facciamo tutti insieme l’autostop e un ragazzo ci accompagna con la sua auto all’aeroporto di Winnipeg. Arriviamo nel primo pomeriggio. Prenoto un volo per Roma via Montreal che parte tra circa trenta ore. Lo pago con i soldi della Honda Accord che ho rivenduto a Los Angeles, esattamente quando?, ah già, nella scorsa vita…
Saluto il trio di canadesi. Di nuovo.
Ci abbracciamo. Di nuovo.
Potrebbe essere l’ultima volta che ci vediamo nella nostra vita, ma in fondo chi può mai dire cosa accadrà nel prossimo minuto.
Uno di loro tre – il bassista – che nei giorni passati ha spulciato i miei taccuini e con cui ho chiacchierato molto di dolore, esistenza e destino, mi dice di stare su, che tutto nella vita accade per una ragione, e forse questa batosta è la maniera che ha scelto l’universo per dirmi che devo tornare a casa, qualunque sia il posto che posso chiamare così adesso, e concentrarmi su quello che davvero corrisponde al mio essere più profondo: scrivere.
La frase mi colpisce.
Non me l’aspettavo.
I didn’t see it coming.
Ci penso su.
Mi commuovo.
Ci abbracciamo.
Me ne torno a casa.
* * *
Al rientro le frasi costernate dei parenti e degli amici si mescolano alle domande più curiose e i suggerimenti dettati dall’affetto più sincero.
E ora che fai? Torni in America? Te ne vai da qualche parte in Europa? Chiedi un nuovo visto. Fagli causa. Secondo me ti è andata meglio così, sono degli stronzi.
Certo, non mancano gli esperti di buoi appena scappati dalla stalla: Eh, lo sanno tutti, non dovevi uscire dagli Stati Uniti per tutta la durata del visto.
Lo sapranno tutti, forse, ma io non ne avevo idea. E poi avrebbe anche un senso, se io fossi stato clandestino. Ma non lo ero. Avevo un visto ‘O1’ che mi permetteva di uscire e rientrare liberamente dagli Stati Uniti – in teoria. Dunque – sempre in teoria – avrebbero potuto giocarmi lo stesso scherzo anche se fossi tornato dopo un paio di settimane passate in Italia per Natale. Ma la storia non si fa con i se e con i ma. Si fa con i fatti. E io ora di fatti non ne voglio sapere nulla. Voglio solo lasciarmi vivere, e scorrere insieme al flusso del tutto.
© Maurilio Di Stefano, 2017

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