EDWARD HOPPER
- Milo
- 5 feb 2017
- Tempo di lettura: 5 min
LE VISCERE DEGLI UOMINI NEGLI STOMACHI DELLE CASE
Di ritorno dalla mostra di Hopper alle Scuderie del Quirinale, penso: quanta inquietudine.
Di ritorno dalla mostra di Hopper, penso: la luce piega e se vuole disintegra tutto ciò che lecca della realtà, senza per questo, mentre lo fa, smettere di renderla più bella di quello che è.
Di ritorno dalla mostra di Hopper, penso: quelle stanze chiuse. Magari non a chiave, magari dentro vuote o piene o chissà che, ma chiuse. E soprattutto, viste dal di fuori. La chiamano suspense, mistero, qualcosa che al di là di quella porta sta accadendo, o forse no, e che potrebbe essere virtualmente tutto e il contrario di tutto (Schrödinger sarebbe d’accordo suppongo).
Ma a me pare di no. A me pare che dipingere una porta chiusa, che nel caso di Hopper equivale a fotografare una porta chiusa, che nel caso di ogni pittore significa immortalare una porta chiusa e lasciarla lì chiusa per l’eternità, a me pare più una voglia, desiderio o bisogno di far sì che quel che c’è dentro resti dentro, ermeticamente isolato e possibilmente dimenticato. Pare a me. E funziona. Di certo aiuta.
Di ritorno dalla mostra di Hopper, penso: i suoi quadri con dentro le persone sono decisamente i più belli; eppure non sono mai le persone i veri protagonisti. I veri protagonisti, che lui lo volesse o no, sono le pompe di benzina, le strade, i muri, le ombre, in un certo senso tutti i segni dell’umanità che non prevedono umanità, i segni del passaggio della vita quando la vita se n’è andata.
E, più di tutto il resto, le case.
Le case che per un prodigioso effetto paradosso hanno le tendine mezzo abbassate a tutte le finestre – o alzate a metà, qui si sfocia nella faida tra il bicchiere mezzo pieno e quello mezzo vuoto – eppure sembrano sfoderare tanti occhi spalancati, stralunati, allucinati da una qualche droga. Ma spalancati all’indietro. No, all’indentro.
E’ un sudare sotto-pelle, un vomitare all’inverso che non è ingerire né digerire ma soltanto scoprirsi un blocco pesante sull’anima. Come noi urleremmo alla vista di sangue carne viscere e interiora calde e autonomamente pulsanti se potessimo rivoltare gli occhi e guardarci dentro, così quelle case, terrorizzate, si fissano in pancia attraverso gli occhi-finestra e sbirciano quell’America, la vera America, che poi, come spesso accade per le questioni intime e nascoste, diventa paradigma dell’intera umanità. I popoli, le culture, le mentalità sanno essere diversi fra loro, le nazioni sanno esserlo, le tradizioni, i governi, le letterature sanno esserlo, ma i vizi e le manie e le ossessioni dei piccoli singoli uomini sono gli stessi ovunque.

Cosa vedono quelle finestre guardando all’indentro è facile immaginarlo: l’adolescente che si masturba pensando alla zia nella camera immersa nella penombra e riversa il suo seme giovane tra le pagine della rivista porno appiccicandole l’una all’altra per sempre, vale a dire fino alla prossima smania che attenderanno pazienti sotto il letto o in fondo all’armadio; la donna bellissima e spenta che nasconde i lividi gentilmente offerti dalle sbronze del marito con cipria, talco e una squallida maglia a collo alto; un malato di cancro; un vecchio costretto a letto e annoiato solo e insonne; una ragazza che scopre se stessa puntando il getto della doccia contro il punto da poco sorto tra le cosce; l’uomo che legge sereno il giornale in poltrona, indifferente o persino orgoglioso al pensiero che stanotte toccherà sua figlia, tanto poi il puzzo di sé sarà facile da coprire con un forte dopobarba aromatico comprato in offerta al discount in fondo alla strada; le vergogne; le paure; le perversioni; i disturbi ossessivo-compulsivi mai risolti, tutt’al più celebrati e quasi santificati dalle centinaia di rituali quotidiani; la presenza della morte, diluita ovunque e comunque sotto forma di arte; le canzoni scritte e poi dimenticate; i disegni fatti col sangue nero degli avambracci tagliuzzati per soffocare il dolore; le poesie che nessuno leggerà mai; le parole non dette, quelle proibite, quelle sepolte; i sogni sognati, quelli nati morti, e quelli ormai decomposti. Questa America, questa umanità e tanto altro quelle case, vere protagoniste di quei quadri, spiano quando si osservano dentro.
Perciò non c’è da stupirsi che gli occhi-finestra si spalanchino sbigottiti, che il loro ventre raccapricciato si accartocci gemendo quelli che ci piace chiamare movimenti d’assestamento o scricchiolii delle assi, che ogni tanto sospirino, inghiottano oggetti, cancellino ricordi. Non c’è da stupirsi che restino case: di tante, diremmo infinite forme d’esistenza in cui ci si può incarnare in questo universo quella umana è di certo tra le più (miserabili?) sfortunate. O magari inopportune è la parola che cerco.
E soprattutto non c’è da stupirsi che quelle case rigurgitino fuori quelle figure solitarie, tristi, annoiate, incapaci di comunicare fra loro, masticate dal mondo e che pure sperano ancora – adorne d’una disperazione tenera – che quella luce del sole che piove pura e obliqua da destra si mescoli come sapone alle loro lacrime e risciacquando ne venga fuori un mezzo sorriso.
(La cosa bella del mezzo sorriso è che, al contrario del bicchiere che può sembrare vuoto o pieno, lui resta sempre un sorriso).
Ci si concentra sempre su ciò che la vita fa agli uomini ma mai il contrario. Nessuno si interroga sui contenitori della vita: le scatole, le celle delle prigioni, le stanze di casa. Chissà perché? In fondo sono i posti in cui passiamo più tempo e conserviamo tutto ciò a cui teniamo. I nostri vuoti a rendere che non rendiamo mai.
Di ritorno dalla mostra di Hopper, penso: se non si era accorto di tutto quello che stava riversando nei suoi lavori, questo vuol dire che lo stava davvero facendo nel modo giusto.
Di ritorno dalla mostra di Hopper, penso: quanta bellezza nella solitudine, e, per dio, quanta solitudine nella bellezza.
Di ritorno dalla mostra di Hopper, penso: che splendore… che splendore e basta.
E siccome resto sempre più spesso senza parole, lascerò che a concludere le mie riflessioni sia la citazione di uno dei miei scrittori preferiti, un altro di quei grandi artisti che con poche parole, proprio come Hopper con poche semplici pennellate, sapeva subito appiccicarti alla pelle la sensazione precisa di tutto il disagio che sentiva di dover esprimere, e ancora ci riesce dopo più di centoventi anni.
“Soltanto le case silenti, con lo sguardo addormentato fisso nel fitto dei boschi, potrebbero rivelare quei misteri, nascosti fin dai tempi più remoti; ma non sono loquaci, anzi sono riluttanti a scrollarsi di dosso il torpore sonnolento che soccorre l’oblio. Talvolta si ha la sensazione che demolirle sarebbe un atto di misericordia, perché certamente sono spesso visitate dagli incubi più spaventosi.”
H.P.Lovecraft, ‘L’immagine nella casa’
© Maurilio Di Stefano, 2017
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