EMMANUEL PAHUD A ROMA
- Milo
- 12 mar 2017
- Tempo di lettura: 4 min
Che tutti sappiano chi sia Emmanuel Pahud non conta. Non adesso. È uno dei migliori flautisti classici viventi, ha suonato e registrato ogni repertorio solistico e orchestrale immaginabile, collaborato con ogni musicista di alto livello all’interno dell’ambiente, ed è anche un bell’uomo.
Quello che adesso conta è che qui in Italia, oggi 11 Marzo 2017, a suonare per la settantaduesima edizione dei “Concerti dell’Aula Magna” della ‘Sapienza’ Università di Roma. Un’aula magna stracolma, anche se si racconta per comodità che gli Italiani sono gli ultimi in classifica quando si tratta di partecipazione a robe di cultura bla bla bla eccetera.
Non conta neppure che pezzi suonerà stasera. Sono quattro brani, di cui tre Pahud li ha arrangiati personalmente. Mozart, Schubert, Schumann e Mendelssohn.
Éric Le Sage lo accompagna al pianoforte. Ed è un fiume che scorre in due. È un essere a due teste. Sono così perfetti che suonano come un disco registrato in studio ma ascoltato dopo le correzioni e i ritocchi al computer. Meglio di così quelle note insieme non potevano essere suonate. Esiste di sicuro un’interpretazione diversa e altrettanto valida, ma non una migliore.
C’è gente che condivide dei video su YouTube con il filtro in bianco e nero e suona prima un flauto d’oro, poi uno d’argento, poi persino uno da poche centinaia di Euro, per dimostrare la tesi che indipendentemente da quanto ci spendi il suono dipende da come tu lo suoni, e non per forza il flauto d’oro è migliore di quello d’argento. Ecco, Pahud è uno di quelli che potrebbe fare lo stesso, se volesse, ma anche aggiungendo un flauto di legno, uno di plastica, uno di carta e uno di silicone.
Mentre lo guardo e lo ascolto danzare col suo flauto d’oro massiccio, penso che lui è uno di quelli che suonano con la mente, con la testa, non col corpo. E pur suonando con la mente non pensa, non ci pensa affatto, un po’ come noi altri quando cantiamo alla guida o decorando l’albero di Natale.
Alcune parti sono molto lente ed espressive, poi qui e lì ti inserisce il passaggio tecnico iper veloce e pulitissimo e realizzi perché lui è Pahud e tu no.
Ma non è solo questo, né la disinvoltura. È che avrà studiato anche vent’anni per quel passaggio velocissimo, ma ce ne sono voluti quaranta per suonare quello lento come si deve, ad arte.
Un calore strano mi avvolge il petto. Sarà l’emozione, sarà il caldo che c’è in sala. O forse no. Forse si tratta del grande, immenso potere che ha la musica di esprimere il non visto, il non visibile, e l’invisibile, tre cose solo in apparenza simili fra loro. Un potere che la pittura, la scultura e persino la scrittura, che funzionano interamente sugli occhi, non raggiungeranno mai per definizione.
Tu ascolti Pahud, come tanti altri grandi, e riconosci qualcosa. Lo riconosci attraverso il DNA, attraverso la pelle, attraverso un orecchio e un timpano e un fascio di nervi che sparano quell’onda sonora al cervello ma che di musica, presi uno per uno, non ne sanno niente. Non serve nemmeno conoscere la musica classica, o quello che sia, per riconoscerlo. Per riconoscersi in quello che si ascolta.
Quello che si ascolta che nasconde ma intanto rivela tutto ciò che non stai vedendo.
Le migliaia di ore di studio alle spalle solo per suonare quella singola nota in modo che ti dia la pelle d’oca. Le parti che gli sono sempre venute bene e quelle per cui ha dovuto sudare settimane che però ora si fondono in un flusso in cui non puoi da ascoltatore, forse nemmeno da addetto ai lavori, distinguere le une dalle altre.
E poi un’altra cosa. L’ultima, ma non per importanza. Una cosa che immagino sia solo mia e che non so se sia vera, ma mi piace pensare di sì.
Il pensiero che quando Pahud se ne sta da solo, magari in casa con soltanto le pareti della stanza o al massimo il suo cane come spettatore, suona ancora meglio. Ancora più poetico, ancora più espressivo, ancora più se stesso. E quello che a noi pare perfetto è solo un 90, 95% di ciò che lui è e può.
Mi piace pensare che sia così, ma non solo perché un musicista di quel calibro vuole essere sicuro che avrà la padronanza tecnica totale su quello che suonerà in pubblico e non si sbilancia, come molti fanno; è un metodo diffuso e infallibile, studiare quegli stessi pezzi a un livello di difficoltà maggiore quando te li provi a casa tua.
Io mi diverto a fantasticare che quel 5% mancante – se poi esiste – lui non lo condivida perché non gli va e basta. Perché non vuole mandarlo ‘sprecato’, perché lo vuole tenere al sicuro, protetto, e goderne in privato. Un fatto tra sé e sé, coinvolgendo al massimo, se ancora ci provano gusto a stare ad ascoltare, Mozart, Schubert, Schumann e Mendelssohn.
Una specie di confessione a cuore aperto con lo spartito al posto del confessionale, il flauto al posto del prete e la musica al posto di dio.
Che tutti sappiano chi sia Emmanuel Pahud non conta, secondo me. Non adesso. Quello che conta è tutto il resto.

© Maurilio Di Stefano, 2017
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