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FIRENZE IN TRE GIORNI (1)

  • Immagine del redattore: Milo
    Milo
  • 1 lug 2018
  • Tempo di lettura: 4 min

L'INVIOLABILE PATTO D'AMORE DEL FIORE


Fare un viaggio simile solo dopo aver compiuto trent’anni vuol dire che per i primi trent’anni di vita corri sempre il rischio che qualcuno ti chieda: “Ma come, non sei mai stato a Firenze?”, e devi anche rispondere: “Già.”

Ma in fondo va bene così, perché significa anche essere capitato di fronte a tanto splendore con un pizzico in più della consapevolezza (vade retro l’altra orrenda parola, maturità) che mi fa piacere avere per rendermene conto.

Sin dalle prime chiese cominci a camminare sui sepolcri altrui. Qui sono lastre di marmo, ma in realtà i vivi muovono ovunque i loro passi sui morti e quasi non ci si fa più caso. Invece ogni tanto fa bene, per lo meno a me, guardare a terra, allo stesso modo che fermarmi a guardare il cielo. Ti dà l’idea della tridimensionalità dell’anima. Mentre restare a guardare avanti ti dà idea soltanto di quella del corpo – se davvero ne ha.

Certo, dirò un’eresia, ma sono così affascinanti quegli affreschi ai muri scrostati per metà o per tre quarti… Più li guardo e più penso che se fossi un pittore ne farei la cifra del mio stile, e dipingerei i miei quadri tutti così. A metà. Una specie di non finito michelangiolesco. Ma ti pare che nessuno l’abbia ancora fatto? Credo di sì, anche se non ne so nulla.

Li rende più umani, più veri, e coglie il prodigio del presente. E della trasformazione, della muta di pelle del rettile. Ci vedo dentro l’opera che vuole uscire dal brodo di non esistenza – o che vuole rientrarci al termine del suo compito nel mondo, non fa differenza. Ci vedo dentro persino la mente umana a ogni suo livello: quella del bambino che inizia a formare strutture, quella dell’adulto che si sforza di non crescere troppo e non sollevare il velo di Maya proprio da ogni superficie, quella del vecchio che ha i circuiti in via di cancellazione ma alcuni ricordi colorati e indelebili ancora emergono bellissimi sul grigio dell’intonaco. Ricordi che decidono da sé quando affiorare, proprio come l’ispirazione e le opere nella mente dell’artista.

Lo stato di conservazione all’interno delle cappelle invece è sorprendente. Non ne so molto del rapporto arte-natura a livello filosofico, ma a livello pratico vedo che le opere esposte alle intemperie hanno vita breve, questo è poco ma sicuro.



L’Arno è stupendo.

Ogni volta che vedo un fiume grande e grosso lambire i palazzi la mia mente gioca al paradosso: come fa un fiume così bello a decidere di attraversare tutte queste città importanti? Come l’ha capito? È sempre non più di un millisecondo, quel tanto che basta a sorridere, poi mi ricordo che sono le città ad essere state costruite lungo il fiume che era già là. Deve essere andata senz’altro così.

A proposito di bellezza e grandezza, quando mi trovo davanti Santa Maria del Fiore rifletto: possibile che le dimensioni architettoniche siano così rilevanti? Un parametro così triviale, spesso volgare, come la grandezza…

Eppure mi rispondo di sì. Assolutamente. La gente non arriverebbe da ogni angolo del globo se le piramidi d’Egitto fossero alte quanto un tavolino, se la Grande Muraglia misurasse venti metri e dividesse un prato in due. Anzi, Parigi neppure sarebbe Parigi se la Torre Eiffel fosse identica ma alta quanto un semaforo, chi ha il coraggio di contraddirmi? Persino la natura, con i suoi Niagara ed Everest e Grand Canyon e Ayers Rock si comporta più o meno allo stesso modo.

Ma per fortuna, lo ammetto, il discorso non vale per ogni cosa. Altrimenti non esisterebbero l’enigma della Gioconda, la malinconia della Sirenetta di Copenaghen, né mezzo mondo e mezza storia del mondo si sarebbero accaniti attorno a un oggettino come il Santo Graal.

Ma la grandezza ha la sua importanza, c’è poco da fare, e questo Brunelleschi doveva saperlo bene. Certo, è sempre sconvolgente, e a tratti disturba, dover ringraziare la smania di potere – e della sua ostentazione – degli uomini antichi per averci donato tutta l’arte che abbiamo qui oggi.



Ma ancora più sconvolgente è osservare questa cattedrale. Già mi dà le vertigini pensare che ogni singolo mattoncino che vedo è indispensabile all’intera struttura, per definizione, e così torno a fantasticare sui segreti mistici dell’antica abilità di costruire monumenti agli idei e su quanto questa storia del mattoncino somigli in effetti a quella degli uomini e dell’umanità.

Poi però, mi perdo nel discorso sui colori. Voglio dire, fatta eccezione per la cupola non è che bicromia, bicromia pura, un bianco e nero come di una immensa dama o una scacchiera verticale; eppure c’è così tanta luce, così tanto colore che l’intera piazza non riesce a contenerli e deve riversarli nei vicoli laterali come valvola di sfogo.

Anche il nome è meraviglioso. E non si deve essere cattolici né cristiani per apprezzarlo, solo sensibili ai suoni e ai sensi.

Santa. Maria. Del Fiore.

Volendo fare i filologi e andare a cercare le etimologie… Santo, come Sacro, deriva da sancire un patto, ossia ciò che è sacro, inviolabile perché protetto da giuramento. Maria, dall’ebraico Myriam, nell’ipotesi più accreditata deriverebbe da radici egizie che vogliono dire amata/amore. Questo vuol dire che, facendo la parafrasi del nome della cattedrale di Firenze, quello che ne viene fuori è qualcosa di molto simile a: l’inviolabile patto d’amore del fiore.

Ditemi voi se non è uno dei più bei titoli mai pensati per un libro di poesie. Be’, non sarò certo io a tentare di scriverlo.




© Maurilio Di Stefano, 2018

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