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FIRENZE IN TRE GIORNI (2)

  • Immagine del redattore: Milo
    Milo
  • 2 lug 2018
  • Tempo di lettura: 5 min

PUREZZA E STUPORE


Dentro gli Uffizi è piuttosto piacevole ritrovarsi davanti alle inattese sculture di Fritz Koenig. Stilizzate, subatomiche, intense e color piombo, sono davvero romantiche e a modo loro infinitamente tenere. La compassione – con la bellezza, certo, ma sto iniziando a pensare che siano grosso modo la stessa cosa – salverà il mondo.

Trittici, pale d’altare e madonne col bambino a non finire. Sarà una mia malattia tutta personale, ma non ce n’è una che non mi incanti, che non mi fermerei a guardare per ore. Le vesti vaporose, i visi inespressivi come il faccione totale dell’universo. E tutto quel rosso e quell’oro, quel rosso e quell’oro, tanto rosso e tanto oro che chiunque sia un pochino appassionato di alchimia non può fare a meno di sentirsi in paradiso – dantescamente parlando, è chiaro, e non solo perché siamo a Firenze.

Annunciazioni, natività, crocifissioni, deposizioni, resurrezioni. La vita di quel Gesù di Nazareth tocca così da vicino tutti quanti, credenti e non, perché con immagini simboliche e mistiche riesce a riassumere la parabola e a condensare l’intensità della vita che in fondo sono le stesse per tutti noi: una madre che s’accorge di essere incinta e si sente toccata dal miracolo, il parto e tutti lì attorno a sorridere, la vita e poi la morte e tutti lì intorno a soffrire, un funerale con la composizione del corpo e gli ultimi sommessi omaggi, la ridistribuzione dei propri atomi e della propria energia nei prossimi livelli di esistenza.

Quattro stagioni della vita, quattro bracci della croce. Un bue, un asino, la luce, il calore. Ognuno di noi ha vissuto almeno un attimo in un presepe, anche se non se ne ricorda. E ancora colore. Ci vuole così poco a rendersi conto d’essere tutti figli della stessa creatura.

Poi, volti l’angolo, nella stanza successiva ammiri sette belle donne che rispondono ai nomi di Giustizia, Fortezza, Temperanza e cose così, e d’improvviso oltrepassando un uscio te le trovi davanti: la Primavera di Botticelli e la sua Venere che nasce. Allora non sono soltanto magliette e puzzle, riflette di nuovo la selvaggia mente pop che ti hanno addestrato ad allevare. Allora queste cose sono vere. Più che reali: vere. E vanno oltre.

Vanno davvero oltre, dico sul serio: o non ci sarebbero a lato i non vedenti che vengono fino a qui per ammirarle attraverso il tatto sulle riproduzioni in 3D messe a disposizione dal museo.



Capelli lunghissimi, sensualità, centauri, creature alate, spiriti dei boschi, riti della terra e riti del cielo, semplicità, maternità, conchiglie, frutta, bimbi, animali, dei, santi e diavoli convivono sotto i tetti di questo sontuoso palazzo in una tale armonia che viene da chiedersi come mai gli riesca così difficile di fuori.

Domanda legittima: come mai c’è sempre una Giuditta con la testa di Oloferne e la testa di Oloferne nove volte su dieci è identica a quella di Caravaggio così come era raffigurato sulla banconota da centomila lire? Risposta: non lo so, ma ne prendo atto e ogni volta mi viene da sorridere.

I tondi. I tondi sono pura poesia. E ritrovarsi a sei centimetri dal naso le pennellate delle mani di Michelangelo e Raffaello per me vuol dire una sola cosa: commozione.

Ma anche teschi. Teschi ovunque, in realtà. Con mandibole slogate e staccate di netto, serpi, lucertole e rivoli di sangue ad accerchiarli da ogni lato con la stessa sinuosa insidiosità.

Ho l’impressione che quando la morte era così presente nel mondo a livello visivo fosse meno ingombrante a livello esistenziale. Magari sbaglio.

I piccioni sono gelosi che la cupola di Brunelleschi gli rubi la scena da ogni angolo da cui osservi Firenze, e allora si fanno più molesti e invadenti per attirare la tua attenzione sulle terrazze assolate.

Bacco, Medusa, Davide con la testa di Golia e San Tommaso che infila il dito nel costato di Cristo. Ma a parte questo, che era doveroso, non posso e non voglio parlare di Caravaggio. Sarebbe indegno e non ne sono in grado.



È uno dei più grandi privilegi della parola, e dunque del mestiere stesso di scrivere, quello di avere un limite. Meglio ancora se consapevole. Un romanzo, una poesia, persino il testo di una canzone durano quel tot di parole proprio perché oltre c’è ancora molto altro, ma non è nulla che altre parole saprebbero esprimere. Per fortuna, aggiungerei.

Le statue in Piazza della Signoria riposano immobili, ma altrettanto immobili sono le loro ombre. Ombre di statue. Se fossi capace scriverei un intero trattato sulle ombre delle statue.

Di cosa parlerebbe? Poesia? Filosofia? Estetica? Architettura? O sarebbe solo un egocentrico sbrodolamento linguistico-esistenzialista che a nessuno interesserebbe leggere? Io dico tutte quante insieme. Magari un giorno ci provo.

Per adesso mi accontento di alleggerirmi la mente accarezzando il muso della statua del Porcellino, gettando una moneta nella fontana in cerca di un presagio di buona sorte, che non fa mai male.

Mi confonde, l’idea di fortuna. È lo stesso di quando andiamo dai cartomanti, è lo stesso di quando preghiamo… Siamo seri: noi non vogliamo sapere come andrà, noi vogliamo solo che vada come diciamo noi. E quando accade neppure quello ci fa felici, il più delle volte. C’è poco da fare, siamo uomini, e serve davvero tanto lavoro per sfuggire a questo. Ma non è del tutto impossibile. Se capitate in Piazza del Mercato Nuovo e guardate attentamente l’espressione stoica del porcellino di Firenze, noterete che vi sta dicendo la stessa cosa.



In questa casa nacque Dante Alighieri. Lui in persona ha camminato in queste strade e in queste stanze, goduto della stessa vista dalle finestre – più o meno. E qualcuno è anche riuscito a far stare tutta quanta la Divina Commedia in un solo poster di un metro quadro che è lì appeso al muro.

Il potere della memoria che hanno le pareti: su una sola superficie possono incollarsi le impronte digitali e vocali di venti generazioni.

Pitti e Boboli, due definizioni di parole crociate che finalmente in un gran sussulto liberatorio diventano vive in tutto il loro splendore.

Amorini alati e ancora colore, madonne e fanciullini con ali da pipistrello che spuntano dalla schiena, serpenti ovunque, candelabri a sette braccia, spugne sulle tenaglie, San Girolamo che se ne sta sempre buono buono nel deserto e medita sulla vanità della vita terrena senza infastidire nessuno, piccoli Gesù addormentati per dimenticare per un istante il peso di essere dio, leoni cani lepri e tanta uva nei cesti della frutta, Raffaello Sanzio e ancora i suoi visi di madonne e quei bambini davanti ai quali vorresti morire perché sai già che ogni passo oltre non sarà che un tornare indietro sul cammino della purezza e dello stupore.

E tartarughe.

San Miniato al Monte – sarà per via della salita ascetica per raggiungerla e il cimitero che riposa ai suoi piedi – ti porta verso una dimensione più mistica e templare, più medievale e meno rinascimentale, più vaga e meno storica. E ogni tanto si ha bisogno anche di questo: perdere i soliti contesti, lasciarsi alle spalle i sensi di colpa congeniti e quelli acquisiti, svegliarsi nella notte e almeno per un secondo non riuscire a ricordare il nome che ci hanno dato e dove si trova la stanza in cui stiamo dormendo.



Poi abbracci Firenze in un solo sguardo, per un po’ galleggi sopra i secoli al passo con le nuvole, e davvero hai la sensazione che a nulla di malvagio o di sbagliato sia mai stato accordato il permesso di salire fin quassù.


© Maurilio Di Stefano, 2018

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