FIRENZE IN TRE GIORNI (3)
- Milo
- 3 lug 2018
- Tempo di lettura: 5 min
IL SUONO CHE FA LA BELLEZZA
Ridiscendere nell’avventura dello Spedale degli Innocenti è un cammino interiore devastante.
Le vite di migliaia di bambini in quest’orfanotrofio convertito a museo raccontate dai pannelli illustrativi, dalle testimonianze e dalle voci registrate mandate in loop da un altoparlante nascosto nelle scale della struttura fanno per un attimo davvero percepire la presenza di spettri fanciulli intrappolati nelle pareti.
E la pietra concava nella quale venivano abbandonati i bambini dai genitori che non potevano occuparsene; lo spazio adibito a reliquiario, i cassetti con tutti gli oggettini o oggettini a metà che i genitori lasciavano con loro per riconoscerli se e quando fossero venuti a riprenderli, il vero significato universale della parola ‘simbolo’ raccolto in un corridoio; le storie di centinaia di trovatelli, e fanciulle a lavorare come matte per crearsi una dote e un giorno sposarsi per avere magari quello che a loro era stato negato: una famiglia.
Ma la cosa più affascinante sono i loro nomi. Nomi mai sentiti, impensabili per noi dell’Italia moderna, alcuni persino belli e poetici, altri assurdi, ma in un certo senso tutti profetici allo stesso modo.
Ultimo, Meuri, Prisco, Nilo, Ortensia, Maria Fortunata, Elettra, Demetria, Laudata, Angelico, Ninfa, Radegonda Elisabetta, Settimo, Settimmia, Atto, Teopista, Teodomiro, Pergentina Fausta, Bonfigliola, Mustiola Emilia, Agatangiolo, Saturnina, Grisogona, Teuseta, Ismeno. E tanti altri. Chissà quanti altri…
Nomi che si elencano simili a quelli di tutti i grandi artisti che hanno riempito questa città di bellezza ma privilegiati dalla sorte pur se lo stesso nati da uomo e donna. Perché questi bambini non hanno potuto diventare né intellettuali né artisti, e forse sarebbero stati anche più eccelsi, solo perché abbandonati qui, e hanno avuto negato l’accesso all’altra lista, quella che l’umanità è abituata a riconoscere come stupefacente: Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Dante, Giotto, Lorenzo de’ Medici detto il Magnifico, Donatello, Andrea del Verrocchio, Brunelleschi, Botticelli, Martini, Gaddi, Allori, Signorelli, Cimabue, Duccio di Boninsegna, Masaccio, Gentile da Fabriano, Filippo Lippi, Beato Angelico. Soprannomi quasi fiabeschi come il Pollaiolo, il Ghirlandaio, il Guercino. E poi il Perugino, Andrea del Sarto, Tiziano, Tintoretto, Raffaellino, il Veronese, Mantegna, Antonello da Messina, Correggio, Giulio Romano, il Parmigianino, Giorgio Vasari, Tiepolo, Rubens, Canaletto, Vélazquez, un certo Michelangelo Merisi da Caravaggio… più tutti gli altri che scorderò di proposito, tanto, ditemi voi chi, chi di loro non è passato da questa città meravigliosa?

Ad ogni angolo di ogni strada e chiesa strani simboli dal sapore antico e proibito si affacciano di continuo, a ricordarci che c’è altro sotto la superficie e a lato delle cose così come le conosciamo. Non tutto è buono, è vero, ma neppure è tutto malvagio. Triquetre, trinità, lettere A, compassi, fiori dei tarocchi, coltelli, martelli, è un elenco così lungo che occorrerebbero giorni. Ma è bello guardarsi intorno, notare i dettagli ed entrare in contatto con differenti livelli di realtà, seppure di sfuggita.
Delle Cappelle Medicee io non conoscevo neppure il nome, figurarsi l’esistenza e tutta la bellezza che nascondono – e a che sublime stato di conservazione. Ma questo mi fa molto piacere, è ovvio, così posso godermi lo stupore bambino al quale sono tanto affezionato e che si ripresenta ancora più accentuato di fronte a qualcosa di totalmente imprevisto.
Un po’ come i raggi di sole che penetrano obliqui a trafiggere il silenzio dei chiostri per scolorirne i dipinti alle pareti su tre lati. Non c’è una sola vita che possa esistere senza il sole, né ce n’è una che il sole a lungo andare non consumi. Ma cos’altro potevamo aspettarci da una stella che per mestiere consuma se stessa?
Intanto dal caldo del sole si passa senza soluzione di continuità al gelo del marmo. Il marmo pieno di vene e sfumature. Come un sistema sanguigno pensato apposta per gli artisti, che col suo sangue pietrificato pare creato ad hoc per permettere di immortalare le loro opere. Opere generate e non create, giocando ancora con le parafrasi. Tanti Geppetti a cui il legno non andava bene e aspiravano all’eternità dopo aver visto come riesce bene alla natura con la roccia delle montagne. Che poi neppure quella è eterna, ma un artista non può mica fare a meno di creare.
PARIO E MARMORE. Partorisco dal marmo. Questo dice l’inscrizione su una lastra. Appunto.
Inquietanti figure incappucciate con sguardi spalancati e libri aperti dipinte alle finte finestre, teschi con tibie in rilievo, delfini dal muso minaccioso: tutto questo variegato bestiario ti osserva col suo sguardo barocco e indagatore. Ti senti nudo, nudo al di là della pelle, quasi indifeso, e allora è bene non avere nulla da nascondere alle mille porte aperte della creazione.
Poi fanno la loro comparsa, come è quasi inevitabile in Italia, pavimenti mosaicati d’epoca romana, e ti accorgi che tutto ciò che per un giorno intero t’è sembrato antico in realtà rispetto a quest’altra roba è piuttosto giovane. Un ragionamento di relatività che se applicato a ogni ambito della vita alleggerisce di parecchio i pesi – che di fatto pesi non sono.

Le parole, e tutto il resto, si arrestano di fronte a quel David.
È così bello – dirò solo bello – che a un certo punto sono costretto a distogliere lo sguardo e mettermi a spiare tutti gli altri che lo ammirano incantati. Tanto, penso con un moto di sincera umiltà, cosa posso mai dargli io guardandolo che lui non abbia già? Proprio niente. Solo fastidio. Magari lo guasto anche un po’.
C’è sempre un posto sacro meno sacro degli altri nelle grandi città d’arte, e qui si chiama Santa Croce. Ha alle pareti così tanti simboli precedenti e/o estranei alla cristianità… e dentro ci trovi, come niente fosse, le sepolture di Michelangelo, Galileo, Machiavelli, Alfieri, Rossini e Foscolo. Non l’elenco delle persone più cattoliche della storia, voglio dire. Sarà forse proprio da loro che deriva il nome, semplicemente bellissimo, dell’adiacente Galleria dei Sepolcri Romantici, altro titolo perfetto per un’opera poetica che forse solo quelle ‘Itale glorie’ avrebbero potuto scrivere. E infatti l’hanno fatto.
Artisti così illustri che le loro ossa riposano in una chiesa nonostante tutto. Ma in fondo non c’è bisogno di alcuna specifica fede per ammettere la natura divina dell’uomo, così come di ogni altro essere vivente. I nostri corpi non sono che una piccola parte dello smisurato ingranaggio stellare, che ruota così lento da sembrare immobile.
Un po’ come l’arte: il posto dove la parola si arrende. Perché se ne vorrebbero usare così tante che alla fine il risultato sarebbe il silenzio. Somma dei colori uguale bianco.
È esattamente così che recita una frase che ho letto non ricordo più dove qui a Firenze in uno di questi tre giorni: “Siamo fatti di silenzio e ossa.”
E tolto via il silenzio, non restano che le ossa, se ci pensiamo corpi con un’anima.
Ma se solo impariamo a pensarci come anime vestite di corpo, allora il risultato è opposto: tolte via le ossa, non resta che il silenzio.
Il silenzio che a osservarlo da vicino – osservarlo, non ascoltarlo – è la voce divina, il rumore degli artisti che roteano lenti attraverso le età degli uomini, la musica delle sfere.
Il silenzio che è il suono che fa la bellezza.

© Maurilio Di Stefano, 2018
Commentaires