FRANCO, UNO DEGLI ULTIMI
- Milo
- 9 ott 2017
- Tempo di lettura: 6 min
FRANCO L’IDRAULICO: UNO DEGLI ULTIMI
We are drowning in information, while starving for wisdom.
E.O.Wilson
Se mi chiedessero di scegliere un superpotere, uno solo, non avrei il minimo dubbio su cosa rispondere.
Poco dopo essere andato a vivere fuori Roma, in campagna – ‘per aspettare la morte alle mie condizioni e non alle sue’, come ho scritto una volta da qualche parte – ho conosciuto Franco, l’idraulico. Per essere precisi Franco non è il suo vero nome, ma potrebbe tranquillamente esserlo. E mi sono ritrovato in un’altra dimensione, nel tempo e nello spazio.
Da bambino ho avuto accesso ad alcune cose grazie ai due piccoli paesi abruzzesi di cui i miei genitori sono originari, ma nel 2010, nel bel mezzo dell’Agro Pontino, tutto un mondo mi si è rivelato. E forse proprio lì ha avuto inizio il mio percorso di (ri)avvicinamento al cosmo e alla totalità del divino che è tuttora in corso.
Franco appartiene a quella particolare generazione dei nati tra gli anni ’20 e gli anni ’50 che, non solo in Italia, ha assistito al grande passaggio. Sono nati nel prima, vissuti nel mentre, invecchiati nel dopo. Non esiste altra generazione, nella storia così come ce la raccontano, che sia passata dal bagno in fondo al cortile a Internet illimitato nell’orologio da polso. E il contrasto è ancora più accentuato se andiamo a pescare nelle maglie sfilacciate della provincia e dei piccoli paesi
Mia nonna, ad esempio, è del 1929. Da bambina impiegava due ore di cammino, nel paesino in Abruzzo, per andare a prendere secchi d’acqua pulita al fiume che poi riportava a casa sulla testa come si pensa facciano solo le donne africane; l’anno scorso parlava con me su Skype mentre io ero a Los Angeles.
E il bello è che è una gran donna, perché se ne sa anche stupire: ogni tanto ne parla, una di quelle frasi riflessive del tipo ‘chi avrebbe mai immaginato che avrei visto questo o fatto quello’, e sono sicuro che saper ancora trovare in se stessa quello stupore di bambini è parte di ciò che ancora la tiene in vita a ottantotto anni. Ma questa è un’altra storia.
Avevo bisogno di un idraulico per montare i sanitari e la doccia nuova nella casa appena comprata fuori Roma, nell’Agro Pontino appunto. Una signora del posto mi consigliò questo Franco. Me lo ritrovai a casa. Da allora mi ha insegnato così tante cose che me lo sento come un terzo nonno, in questo senso l’unico in vita purtroppo.
Non ha nemmeno finito le elementari, perché quando aveva circa sette anni andò subito a imparare il mestiere con suo zio, eppure il numero delle cose che sa fa spavento. La sua è un’enciclopedia mentale tutta meravigliosamente rurale, popolare, contadina. E ama condividerla con te, raccontandola in modo molto bello, con gesti pacati delle mani callose, sorrisi sotto il naso rosso, nell’immancabile completo jeans di pantaloni azzurri e giacca dello stesso colore indossata rigorosamente aperta.
Parlo di cose che non si può neppure cominciare ad elencare. Una conoscenza che è sapienza. Una saggezza che tanto tempo fa la natura era abituata a trasmettere all’uomo per osmosi e che nessuno si sarebbe posto il problema di dover mettere al sicuro nel caso andasse dimenticata.
Come si pianta un albero di fichi. Come si traccia un solco nel terreno. Come si cerca l’acqua sottoterra. Come si scava un pozzo. Da cosa si capisce se la terra è buona. Da dove arriva il vento quando le nuvole hanno quella forma. Se pioverà. Se l’albero darà molte prugne. Perché le albicocche sono piccole quest’anno. Perché le galline non fanno le uova. Che funghi sono quelli. Dove si trovano gli spinaci teneri da cogliere. Come si ripara una motosega inceppata. Come si spacca la legna per fare meno fatica e soprattutto non farsi male. Come usare un legnetto di quaranta centimetri come leva per sollevare un blocco di pietra del peso di ottanta chili. Quale muro è costruito a piombo. Quale calce è impastata male, quale invece ingrassa il terreno se la spargi. Quale intonaco durerà a lungo. Quale tubo si coprirà di ruggine, quale parete di muffa. Se il tetto assorbe troppo calore. Se la canna fumaria del camino tira bene. Se la punta del trapano è quella giusta. Se l’inclinazione è quella ottimale, se lo è la forza, se lo è l’intenzione. E poi i racconti sull’infanzia, sul mare, sul lavoro nelle fabbriche, sui sindacati, sulle buste paga, sulla classe politica, su mezzo secolo di storia d’Italia come sui libri non ne troverai mai, inclusa la vicenda del suo caro amico che a passeggio nei pressi della ferrovia saltò in aria su una mina inesplosa dopo ormai parecchi anni che della Seconda Guerra Mondiale non si parlava più.
Saggezza.
Sulle formiche, i cani, le volpi, le faine, le tartarughe, le talpe, le api, le vespe, le pecore, i formaggi, le uova, il pane, le more, gli asparagi, le canne, i cespugli, le siepi, i fiori, le nespole, i tronchi, i fuochi, le braci, la cenere, e il tempo inteso in ogni senso.
Potrei andare avanti per pagine, e lo stesso l’80% della lista sarebbe composto da cose VIVE. E animate. Cose che respirano, crescono, appassiscono, muoiono – per poi rinascere.
Quanti di noi possono dire, oggi, che l’80% delle cose che sanno, che pensano, che toccano e con cui hanno a che fare quotidianamente, è composto da esseri vivi e animati? Io personalmente proprio no.
Ecco perché definisco Franco, così come mia nonna anche se ha una quindicina d’anni più di lui, uno degli ultimi. Uno degli ultimi ad essere nati così ‘presto’ e ad essere ancora vivi così ‘tardi’.
Io stesso, che neppure faccio parte dei cosiddetti Duemila e al massimo sono un nato negli Ottanta e figlio adottivo dei Novanta, io stesso già non ho idea di cosa significhi.
Mentre loro sono gli ultimi di una lunga fila di generazioni, di popoli, di un’intera umanità, e non solo perché al contrario di noi prendono ancora delle pensioni. Loro sono gli ultimi a mantenere ancora il filo integro, il legame intatto, il contatto con la terra. La terra che è sia sfera schiacciata ai poli a spasso nel cosmo che massa umida fresca e marrone in cui si schiudono semi e allungano radici.
A me pare una cosa da, come dire?,… da conservare. Da salvare, ecco.
Si tratta pur sempre l’ultima generazione dei nostri nonni. Io, dei miei quattro, ne ho conosciuti solo tre e ora me ne resta una, ed è una delle poche cose che a pensarci mi rendono triste sul serio.
Franco ormai lo vedo poco, sta invecchiando e ha molti pensieri. Ma ogni tanto passa a trovarmi, e non lo fa mai a mani vuote: sempre con una busta di verdura appena colta o una cassetta di frutta fresca che profuma ‘come una volta’.
Invece con mia nonna sto facendo la mia parte, o per lo meno ci sto provando: tutte le cose che mi racconta, dal più insignificante particolare della sua vita da bambina all’ultimo dei mille aneddoti satirici di cui dispone a scorte infinite e mi ripropone in ogni salsa durante le sessioni di conversazione che spesso abbiamo, sto cercando di trascriverle ad una ad una e metterle dentro un romanzo che se tutto va come deve andare un giorno vedrà la luce.
È una cosa che faccio perché mi piace, prima di tutto. E perché è il compito degli scrittori, pagati o meno che siano. E perché so che con il passare degli anni finirei inevitabilmente per dimenticarle tutte, o in gran parte. E infine perché sono consapevole che mi è concesso un grande privilegio di cui molti vorrebbero disporre e non possono, e che dopo questa generazione chi me ne parlerà più?
Ma c’è anche una ragione più profonda, più universale, per cui mi sento di dire che questo sapere che è più che altro un sapore, un atteggiamento, un’indole, merita di essere salvato per i posteri. È un’idea a metà tra ottimismo ed esoterismo, che chiunque ha il diritto di condividere o meno.
Ossia: io credo, e in parte vedo (non sono il solo), che l’umanità è davvero stanca di quest’ombra che tutti noi percepiamo a diversi livelli nelle nostre esistenze, questa insoddisfazione, precarietà, insicurezza, paura, depressione, inutilità, ostilità. E anche se non ne siamo ancora pienamente consapevoli, in realtà tutti noi desideriamo stare bene, bene davvero, e bene con gli altri, perché sentiamo distintamente che questa era oscura è ormai davvero giunta agli sgoccioli.
Lo dimostra il dato, tra le altre cose, che a livello globale il ritorno alla natura e le prime comunità di fuga dai presunti valori della modernità – per lo meno dalle sue implicazioni distruttive – siano un fatto.
Allora, mi dico, se la generazione degli ultimi è ancora in vita e la generazione dei primi è ormai tra noi, significa che quel filo, quell’approccio, quel contatto con la terra la natura e il cosmo in realtà non si sono mai interrotti davvero. È una cosa che il pianeta chiede, quasi supplica, con voce bassa e profonda, e una fetta sempre più ampia del genere umano sta rispondendo.
Per questo se mi chiedessero di scegliere un superpotere non avrei la minima esitazione a rispondere. Non mi lascerei tentare dal volo umano, né dall’immortalità, né dalla capacità di rigenerare i tessuti. Non mi farei sedurre dall’invisibilità, dall’abilità di assumere qualsiasi forma o da quella di viaggiare nel tempo.
A me basterebbe poter poggiare la mano sulla spalla del mio idraulico mentre beviamo insieme un bicchiere di birra e gazzosa, o stringere le dita di mia nonna nelle mie mentre lei mi racconta per l’ennesima volta la stessa storiella, e poter trasferire al mio cervello come via USB tutte quelle informazioni, quelle sensazioni, quei ricordi. Perché è disarmante realizzare che alla loro scomparsa tutta quella vita, per raccontata o no che sia mai stata, andrà irrimediabilmente persa.
© Maurilio Di Stefano, 2017
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