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GIUDIZIO UNIVERSALE SHOW

  • Immagine del redattore: Milo
    Milo
  • 18 mar 2018
  • Tempo di lettura: 5 min

Quello che sta accadendo in questi primi mesi dell’anno 2018 all’Auditorium Conciliazione di Roma è qualcosa di veramente indescrivibile. Punto.

Lo show, ideato da Marco Balich, è così meraviglioso, per lo meno agli occhi di chi qui scrive, che neppure tutta la pubblicità di cui è tappezzata la città, tutte le recensioni entusiastiche dei critici e tutta la risonanza che danno il “tema principale composto da Sting” o la “voce di Michelangelo è di Pierfrancesco Favino” arrivano a rendergli giustizia (un’espressione che mi pare quanto mai appropriata, dato il contesto).

È proprio come quando si parla di volta celeste, e di volta affrescata, solo che qui vengono entrambe riunite insieme e sovrapposte sulla volta reale dell’auditorium, che per forma e pendenza si presta perfettamente allo scopo.

È il teatro stesso che si fa affresco e, all’occorrenza, cielo. E succede che è come fossimo in un cinema e il nostro attore preferito, quello per cui abbiamo pagato il biglietto – in questo caso l’Arte di Michelangelo – prendesse vita ed uscisse fuori dallo schermo per venirci ad abbracciare. Dritto da noi, dico, per abbracciare proprio noi e nessun altro.

Disclaimer: non se ne può fare una descrizione, né una recensione. Così come non si può rivelare nulla a chi non l’ha ancora visto, se non che è bene che lo faccia, perché i biglietti vanno a ruba e hanno tutte le ragioni per farlo. E allora cosa si può fare, se non affrescare con le parole come l’Artista ha fatto con la pittura e i creatori di questo show con le moderne tecnologie?

Tutto è stupendamente vivido, intenso, avvolgente e viscerale.

Scene iniziali tra titanici blocchi di marmo. Un entrare e uscire e rientrare e riuscire dall’utero della roccia. Michelangelo che partorisce la statua che partorisce Michelangelo che partorisce la statua, in una splendida evocazione di quella che io definirei ARTE QUANTISTICA – se esiste già, bene, in caso contrario sono contento se qualcuno si approprierà dell’idea e ne tirerà fuori qualcosa di buono. Tutto è connesso con il tutto: tutti gli uomini in un solo uomo connesso con la roccia connessa con il dio connesso con l’arte di un solo uomo che è tutti gli altri.

Il non-finito michelangiolesco: quella noia di portare a termine le opere perché ormai tanto si sa, sono lì, sono già nel marmo, io posso giusto dare quattro colpi di scalpello e mostrarvi un indizio, l’incipit, il resto lo potete capire da soli. Il non-finito dell’opera nel marmo che è come un figlio che è ancora nella madre, o che è già nella madre, da sempre, come l’universo nella mente di dio. Il non-finito che per noi uomini comuni significa qualcosa di incompiuto, ma nella mente divina di chi sa creare vuol dire qualcosa di illimitato.

Michelangelo, un uomo di cui in fondo non sappiamo nulla, ammettiamolo. Un uomo senza un vero padre né un vero maestro, così si definisce durante la rappresentazione. L’arroganza che deriva dall’abilità, la solitudine asservita all’arte. “La forma all’interno della forma.”

D’improvviso odore di incenso che d’un tratto aggiunge allo spettacolo una quarta dimensione, in favore di un’immersione totale. Ma allora come tralasciare la quinta dimensione, la pura immagine, fatta di luce e colori e bellezza… O la sesta, ovviamente la musica. E la settima, infine la settima dimensione che non può essere che la divinità, cui le ricorrenze simboliche dei numeri a lei cari provocano sempre un sorrisetto compiaciuto a un angolo della bocca.

Sembrerebbero i tormenti di un uomo che si sente dio, ma la realtà è che i rapporti tra l’uomo e dio sono sempre stati così difficili perché il primo è una creatura sfuggita all’idea originale del secondo.

L’uomo va oltre i propri limiti, la sua mente è capace prima di concepire poi di creare e infine di inglobare – da lì deriva il dolore – il Grande Tutto, un qualcosa che è molto più di se stesso e della capacità del proprio corpo mortale. Se ce n’è una prova nel mondo è proprio la Cappella Sistina, per come la vedo io.

E questo, questo poter andare oltre i propri limiti, è qualcosa che la divinità, che per definizione è illimitata e onnipotente, non può comprendere; motivo per cui non è stata in grado di prevederlo. Ecco perché in questa nostra era se ne sta tutta imbronciata, fastidiosamente sulle sue, nell’alto dei cieli, in perenne sciarada tra la pura ammirazione e la più cocente invidia delle sue creature terrene: tenere, imperfette ma così sconfinate da riuscire a superare sempre se stesse, proprio ciò che un vero dio non potrà mai provare.

Invece, le parole di limiti ne hanno eccome. E proprio come io non potrò riportare in parole ciò che lo spettacolo di Balich crea, con la sua apoteosi di musica e luce e immagine e affreschi animati virtualmente che si mettono a danzare come per quello fossero nati e non per starsene su un soffitto o una parete, così lo spettacolo stesso non può riportare a noi ciò che Michelangelo ha creato con le sue mani di uomo e la sua anima cosmica circa mezzo millennio fa, giorno più giorno meno.

Però, al di là di tutto il poetico e l’evanescente che ci si può trovare dentro, c’è almeno una ragione pratica, neppure troppo trascurabile, per cui vale davvero la pena di andare a vederlo finché è in replica. Vale a dire: almeno per un’ora si può osservare con i propri occhi la Cappella Sistina a dimensioni che non siano un libro o un poster, e con calma, senza i fastidiosissimi custodi che invece in Vaticano ti spingono, ti dicono di scorrere, ti esortano a procedere, ti intimano di sbrigarti, che la fila è lunga, i turisti tanti, il luogo è sacro, in pratica ti cacciano, ecco, l’ho detto.

Il che è cosa comprensibile, poiché a Roma vengono migliaia di persone l’anno apposta per vedere quel muro e quel soffitto; ma questa stessa ragione, che rende un simile trattamento comprensibile, è la stessa che lo rende inammissibile.

È di arte che parliamo, signori. L’Arte con la A più maiuscola del pianeta. Occorre calma, dolcezza, liturgia. E perdersi, ognuno con il suo rapporto personale con dio e il creato, la propria incredulità e i propri dubbi, i propri pensieri di morte e di nascita.

L’Arte è come l’infanzia, come la guarigione da una malattia, come l’amore: mettile anche solo un po’ di fretta e subito non ne resta che cenere.

Per questo il fatto che questo Giudizio Universale Show riesca a concederci un po’ di questo tempo è già un privilegio per cui non si può stabilire un prezzo.



© Maurilio Di Stefano, 2018

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