IL BARONE RAMPANTE
- Milo
- 19 set 2017
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 17 nov 2018
UNA VITA AL PARTICIPIO PRESENTE
Che ci si creda o no, mi sto rileggendo Calvino. Lo scrittore italiano del ventesimo secolo, non il riformatore religioso del Cinquecento – quello ‘Calvino’ ci si chiamava solo in traduzione.
Dico RI-leggendo perché alle scuole medie il ciclo de I nostri antenati ce l’hanno fatto leggere proprio a tutti. E chi non se li ricorda: Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inesistente? E’ come dire Renzo e Lucia, Smith & Wesson, Alla fiera dell’est, nessuno ha dubbi su che roba sia. Sul Visconte poi fecero anche una parodia su Topolino (ancora mi ricordo il mezzo Pippo buono e il mezzo Pippo cattivo), e una parodia su Topolino ti piazza nell’immaginario collettivo molto più di un Nobel per la Letteratura, dico io.
Devo dire che me lo sto rileggendo anche con sommo piacere e profonda ammirazione. D’accordo, non sarà la Recherchené l’Ulisse, ma non parliamo neppure dei Piccoli Brividi – perdonate il tono da Che ne sanno i 2000?, io sono cresciuto negli anni ’90. E penso che un libro di Calvino letto a undici anni si può anche fare, ma ha poco senso.
Ho appena finito col secondo della trilogia degli Antenati, Il Barone Rampante. Neppure un libro tanto vecchio – è uscito sette anni dopo la nascita di mio padre – e neppure scritto in un Italiano tanto obsoleto, per la cronaca.
L’interpretazione vera, quella accademica, quella che ti spiegano a scuola insieme a Italo Calvino nacque fece scrisse disse viaggiò e morì, è chiara a tutti. Il figlio maggiore di una famiglia nobile abbandona la suddetta famiglia per eccessiva diversità di vedute e si ritira a vivere sugli alberi, dai quali in un modo o nell’altro non scenderà mai più fino al giorno della morte. Ecco, bastano queste due righe e mezza a capire tutto ma davvero tutto.
Quello che invece non ho potuto fare a meno di pensare tutto il tempo mentre lo (ri)leggevo era l’altra chiave di lettura. Forse una delle tante. Forse una che ci vedo solo io e se anche fosse chi se ne frega.
Cosimo, il protagonista, il Barone Rampante, pare a me un meraviglioso e sfavillante monumento all’italica via di mezzo.
Lui non nuota nell’acqua, non vola in cielo, non cammina sulla terra: se ne sta sugli alberi. Vive un po’ come un animale, un po’ come un uccello, un po’ come un uomo. Va a caccia, inventa dei modi per fare i suoi bisogni appeso ai rami, eppure legge un sacco di libri e mastica diverse lingue. Vive sulle piante ma non le ha piantate né fatte nascere, anzi neppure se ne prende cura: sceglie gli alberi solo perché sono già lì a portata di mano e se quando si arrabbia gli girano li maltratta anche, proprio come facciamo noi col Colosseo.
Lui abbandona la famiglia per sempre, eppure è lì che gironzola continuamente sugli alberi attorno alla sua villa per seguire come può le vicende, gli affari, i funerali. Impara a fare tutto sugli alberi, ma non fa che interagire e aiutare chi è ancora a terra a vendemmiare, scappare, fare il miele. Ama una donna che è della terra, si fa amico un bassotto che è della terra, vuole fondare una nuova stirpe di genti libere uguali e in armonia con l’universo, ma il suo ideale muore insieme a lui già quando per vivere domanda al fratello una piccola rendita mensile ricavata dal patrimonio di famiglia – purché il fratello gestisca gli affari e tutto il resto, che lui non ne ha voglia, quindi la rendita mensile sì ma di responsabilità neanche a parlarne.
E così via.
Perché ho detto via di mezzo ‘italica’? Ma perché sono parole che Calvino mette nel libro, mica le ho inventate io. Cito testualmente:"Insomma, c'erano anche da noi tutte le cause della Rivoluzione francese. Solo che non eravamo in Francia, e la Rivoluzione non ci fu. Viviamo in un paese dove si verificano sempre le cause e non gli effetti."
Vero è che noi con l’idea della giusta via di mezzo ci siamo cresciuti bombardati da ogni lato, dal perno letterario dell’aurea mediocritas di Orazio fino all’innegabile doppio destino geografico: l'Italia è l'unica terra che sta in mezzo all'unico mare che sta in mezzo alle terre, lo dice persino il nome: Mediterraneo. E persino Lei, l'Italia dico, in quanto penisola è destinata a restare sempre una via di mezzo, mai isola e mai continente.
Ora, io amo i pendoli e le bilance in bilico e tutti i tipi di eccesso e stravaganza – in una parola amo, forse un po’ troppo, appunto, lo stupore – ma un po' di intensità ci vorrebbe, signori miei. Perdere il controllo davvero; fare la rivoluzione, qualche volta; spendere due invece di uno per rischiare di guadagnare otto invece che tre, lanciare libri infuocati contro qualche finestra, vomitare sulle mura di qualche palazzo del potere (fisico o figurato che sia).
E staccarsi una buona volta da quel voler avere un po' le mani in pasta in tutto perché non si sa mai che poi ti serve il sapersi arrangiare e impara l'arte e mettila da parte e… No! L'arte la devi fare, creare ogni istante, vivere. Se dio si fosse messo da parte l'arte che aveva imparato l’universo non sarebbe qui.
Come un cuore che vuole pompare sangue ma tenerselo pure un po’ per sé, così, per la giusta via di mezzo… e finisce che i polmoni si intasano, manca l’ossigeno e le estremità diventano necrotiche.
Ora, sopporto poco le allegorie e non voglio parafrasare a casaccio l’apologo di Menenio Agrippa, ma se il cuore fosse il nostro governo? O peggio ancora noi stessi, le nostre anime, le nostre menti? Mi pare una metafora semplice, ancora più del Barone che s’arrampica sugli alberi.
Persino Calvino doveva essersi reso conto di quel che stava dicendo con questo libro, più o meno consciamente, altrimenti non avrebbe piazzato quel bizzarro participio presente proprio lì nel titolo: rampante: già così dà l’idea di uno che lo sta facendo in questo momento, nel mentre, nell’intanto, e trattandosi di un libro che si scrive e poi si stampa e poi rimane stampato, allora quell’intanto vuol dire per sempre.
Sempre, lo sta facendo, Cosimo. Si arrampica di continuo e non arriva mai, né a scappare né a restare, né a morire del tutto né a vivere del tutto, né a essere se stesso né a essere come lo vogliono gli altri.
Neppure ad amare completamente, riesce. Ce l’ha lì, questa certa smorfiosa ma intrigante fanciulla che risponde al nome di Viola, la ama sin dall’inizio e alla fine ama solo lei per tutta la sua arborea esistenza, eppure quando è il caso non glielo dice, quando l’ha vicina a lui non l’afferra per non lasciarla andare via, quando ha l’occasione non la rapisce.
Cosimo vuole una civiltà sugli alberi, di uomini giusti liberi puliti e tutti uguali fra loro? E allora perché non le chiede di seguirlo e fare dei figli e cominciarla loro, quella stirpe? Perché se la lascia scappare tra le dita mille volte invece di invitarla a sposarlo e vivere sugli alberi, inficiando così la realizzazione sia del suo sogno sociale che del suo bisogno privato?
Del resto, poverino, non che sia tutta colpa sua – ecco, persino con la colpa si ferma a una via di mezzo, povero buon vecchio Cosimo – perché lei, Viola, è identica a lui: lo ama ma non glielo dice, lo vuole ma poi non lo vuole, gioca e scherza e intanto il sole tramonta.
Dov'è quel pizzico in più di intensità che basta e avanza a guardare oltre, a rischiare? Dov’è quella scintilla di follia senza la quale non esplode mai nulla di buono? Se non tenti quando sei un passerotto appena uscito dall’uovo, finisce inevitabilmente che quando provi a volare troppo tardi non ce la fai e muori, perché è inevitabile accumulare paura, incertezza e soprattutto stanchezza. Ed è proprio così che si esaurisce la storia: Cosimo ci arriva da vecchio, come in un improvviso risveglio miracoloso, e risolve nulla più che procurarsi una morte maldestra. Un suicidio a metà, in un certo senso.
E allora dico, perché dobbiamo sempre farlo così? La forza di lanciarsi dall’albero e aggrapparsi all'ancora che pende da una mongolfiera in volo Cosimo ce l’ha ancora, proprio come da giovane, Calvino ce lo dice e senza mezzi termini: “L’agonizzante Cosimo, nel momento in cui la fune dell’ancora gli passò vicino, spiccò un balzo di quelli che gli erano consueti nella sua gioventù.” Ma un gesto completo sul gran finale non può riaggiustare una vita intera vissuta a metà; questo riesce solo nei film e neppure in tutti, e serve come minimo una colonna sonora decente sulla scena madre, quella della redenzione.
Magari, se me lo avessero fatto leggere a scuola all’età giusta e spronandomi a rifletterci su, tutte queste cose le avrei capite prima e avrei fatto uno – o mezzo – errore di meno. Invece Calvino fece sposò si trasferì si ammalò… mai un insegnate che m’avesse detto: leggitelo e dimmi che cosa ti fa pensare. Ti fa schifo? Lo reputi inutile? È sciocco quel modo antiquato di usare la lingua italiana? È sciocco farlo leggere ai ragazzini alle porte del Terzo Millennio? Sì, no, fa lo stesso, ma dimmi perché. Questo a scuola non mi è mai successo, figurarsi.
Non vogliono che pensiamo. Non ci abituano a produrre, ragionare, creare. Però se poi i tredicenni scrivono “ke” invece di “che” allora sono le generazioni nuove che sono rozze e analfabete e illetterate oltre che iper-computerizzate. Io dico che la via di mezzo al sistema che ci siamo auto-creati va più che bene, e chiunque non se ne tira fuori da sé è altrettanto complice. Dico tirarsene fuori sul serio, però, appendendosi a un albero e “rampando” via di ramo in ramo senza mai guardarsi indietro.
Ma forse sto andando troppo oltre. Alla fine è soltanto la storia di uno che fugge dalla realtà perché troppo pigro o troppo spaventato per mettersi in gioco e vivere davvero e quello troppo intenso sono io, come al solito.
Allora restiamo pigri anche noi, sì, che è più comodo. Una via di mezzo e passa la paura. Facciamo che è solo una favoletta che parla di uno che vive sugli alberi, così come Delitto e castigo è la storiella di uno che ammazza una vecchia e sua sorella e la Divina Commedia nulla più che una specie di trilogia fantasy ante litteram. Giusto?
© Maurilio Di Stefano, 2017
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