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IL CASTELLO INCANTATO

  • Immagine del redattore: Milo
    Milo
  • 18 ago 2017
  • Tempo di lettura: 5 min

Una villa sul mare, un regno di teste, l’ossessione di un uomo.

È un’opera d’arte, ma non esattamente. Non solo.

È un mondo a sé, di una bellezza struggente, e non se ne sente mai parlare.

Sono tutto tranne che un esperto, ma credo non esista un altro posto come questo sulla faccia del pianeta terra.

Poco fuori del centro abitato di Sciacca, in provincia di Agrigento, qualche segnale stradale e zero pubblicità ti indicano come raggiungere il Castello Incantato.

Non è che una collinetta che digrada verso il mare, ma dentro c’è inscritto tutto l’abisso della follia delle menti.

Non a caso quelli del posto lo chiamavano Filippo il Pazzo, ma io ne ho sentite parecchie di storie di gente che è stata definita pazza solo perché era arrivata un tantino in anticipo o si era spinta un po’ troppo oltre.

Figlio di pescatori, Filippo Bentivegna era nato a Sciacca nel 1888. Nel 1912, forse nel ’13, emigrò negli Stati Uniti per cercare lavoro. Lì, raccontano, un brutto (o bel, dipende dai punti di vista) giorno fu pestato di botte. Forse, si dice, per questioni relative a una ragazza di cui si era innamorato. Quando si risvegliò in ospedale dopo tre giorni di coma non era più lo stesso. O magari era finalmente se stesso, chi può dirlo?

Fatto sta che tornò in Italia, acquistò questo podere in collina alle pendici del monte Kronio (un nome per niente casuale) e cominciò a scolpire teste.

Teste.

Teste. Teste. Teste. Teste. Teste. Teste. Teste.



Per lo più in pietra, qualcosa anche in legno. Teste. In totale isolamento. Teste. Viveva di poco, una piccola pensione di invalidità, a casa con sua madre, che accudiva. Teste. Tutti lo prendevano in giro perché era evidentemente lo scemo del villaggio. Teste. Ma in fondo gli volevano bene. Teste.

Teste. Ancora teste. Teste ovunque. Scolpì più teste lui qui di quante ninfee Monet potesse sognare di dipingere.

Bentivegna le scolpì una ad una, facendone poi ammassi, grappoli, cluster. Ma per la maggior parte le dispose in file, a distanza più o meno regolare l’una dall’altra, ad adornare muretti di mezzo metro d’altezza, centimetro più centimetro meno. I muretti che ora delimitano i bordi e i sentieri di questo giardino dei pianti antichi, ma sarebbe più esatto definirlo un reame, che ora i turisti e i curiosi possono visitare.

Teste.

Se si entra in questo posto con l’animo in modalità bambino e l’occhio di un extraterrestre allora forse si è sul sentiero giusto, e si può riuscire a non giudicare ‘da buon borghese’ ma ad amare e ammirare con la mente sgombra il cuore naif di questo scultore. Scultore di teste.

Alcune impilate sopra altre, per lo più tutte delle stesse dimensioni. Nessuna sorride. I volti sono assenti, come madonne medievali o idoli precolombiani. Fissano stoici il vuoto con un’espressione che può essere tanto di totale stupidità quanto di divina comprensione e successivo distacco dalle cose – non c’è uomo in grado di stabilire quale la differenza, o quale delle due sia vera in questo caso.

Teste in ogni angolo. Anzi, pare che non siano nemmeno tutte qui quelle che Bentivegna scolpì nell’arco della sua vita. Si parla di decine di migliaia. Teste a non finire lungo i vialetti che come circonvoluzioni cerebrali ricalcano il labirinto di una mente addolorata e per questo completamente dischiusa. Una mente liberata dal trauma e finalmente priva di ogni legame, limite o condizionamento.

A casa di Pirandello, che non è poi molto distante da qui, si entra in punta di piedi e di fronte alla grandezza delle parole e alla complessità dei concetti si rimane in estatica contemplazione. È un’esperienza, quella, tutta dell’emisfero sinistro del cervello, della ragione, della razionalità, della ferrea struttura derivata dal linguaggio.

Mentre qui, di fronte a questo monumentale prodotto di Outsider Art (un altro termine, più gentile, per dire Art Brut), è il cervello destro a fare da padrone.

Come Bentivegna non aveva bisogno di sapere nulla per fare arte, perché mai ne aveva fatta prima dell’aggressione, così noi non abbiamo bisogno di sapere nulla per emozionarci di fronte all’arte – sua come di chiunque.

La domanda non è tanto se questa sia arte o no. Più che altro io credo che la domanda sia: questa roba era già dentro di lui quando partì per l’America e il trauma l’ha solo sguinzagliata, oppure le botte e i tre giorni di coma l’hanno generata dal nulla?

Si potrebbe stare ore a discutere e speculare senza raggiungere un verdetto.

Quel che conta è questo meraviglioso ometto, che a vederlo in foto sembra un vecchio mendicante uscito da un film neorealista del primissimo dopoguerra, e il suo Castello Incantato scolpito nelle rocce di una collina siciliana fuori dal tempo.



Perché castello? Perché incantato?

La prima è facile, per lo meno a dirsi. Per ogni testa, per ogni singola pietra che è qui, Filippo Bentivegna aveva un nome, un cognome, una vita, una storia precisa. E, particolare per niente trascurabile, se tornavi dopo un anno e gli chiedevi di quella stessa testa, lui ti rispondeva esattamente con lo stesso nome, lo stesso cognome, la stessa vita, la stessa storia precisa. Ora sì che il quadro si comincia a formare, e la tela occupa molto più spazio di quello che sembrava all’inizio. Anzi, la tela è tutto.

E questo risponde quasi da sé alla seconda domanda. Perché incantato…

Forse il numero delle teste quantifica il dolore provato, forse l’amore inespresso, forse il peso di un’improvvisa rivelazione sull’esistenza che le parole non avrebbero mai potuto raccontare e che – questa sì che potrebbe essere un’intuizione interessante – neppure la più grande bellezza o complessità dell’arte avrebbero potuto esprimere, ma solo la mera quantità. La cifra, il numero, l’esagerazione.

Quando nel 1967 Bentivegna morì, mi viene da chiedermi, era finito il dolore dentro di lui? Era finito l’amore? Era finita l’arte? Quante altre teste avrebbe scolpito se la sua vita mortale non gli avesse posto un limite? E che rapporto aveva con la sua, di testa, quella in carne e ossa che portava attaccata al collo? Era una delle tante, uno dei tanti abitanti di questo posto con nome cognome vita e storia?

Lascerò rispondere lui, Filippo Bentivegna in persona, con alcune bellissime parole che pronunciò un giorno e che trovate in fondo a quest’articolo.

Perché ora, di nuovo inaspettatamente, la giornata di visita qui al Castello Incantato sta virando, e presto si concluderà con tavolate di cibo, vino a volontà e musica popolare cantata, tra gli altri, da un chitarrista che è il sosia dell’attore che interpretava Clemenza da giovane ne Il padrino – parte II.

Non manca nulla: Vitti ‘na crozza, Ciuri ciuri, persino il tema del Padrino di Nino Rota – appunto – con parole aggiunte per l’occasione.

Così la serata finisce a pancia piena, testa leggera e una punta di malinconia.

Ma non è in fondo questo il riassunto di noi Italiani? Gente che non sa ridere senza piangere, che non sa piangere senza ridere, e che canta canzoni da emigrante persino quando resta in patria…


“Io scavo queste caverne e penetro nella terra… io la possiedo… ne traggo forza ed energia e per questo qui sono tutti vivi…”

Filippo Bentivegna (1888-1967)



© Maurilio Di Stefano, 2017

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