IL GRANDE PIACERE
- Milo
- 2 dic 2017
- Tempo di lettura: 6 min
D’ANNUNZIO/SORRENTINO
“La primavera romana fioriva con inaudita letizia: la città di travertino e di mattone sorbiva la luce, come un’avida selva; le fontane papali si levavano in un cielo più diafano d’una gemma; la piazza di Spagna odorava come un roseto; e la Trinità de’ Monti, in cima alla scala popolata di putti, pareva un d’uomo d’oro.”
L’ho finalmente riletto – Il piacere - con gli occhi di oggi, che sono ancora niente rispetto a quelli di domani ma almeno son un po’ meglio di quelli che avevo a sedici anni. Certe cose come si studiano a scuola sono davvero indecenti. Non è colpa di nessuno in particolare, solo un dato di fatto.
“Essi trottavano in silenzio, suscitando gli echi sotto gli archi, sotto i templi, nelle ruine solitarie e vacue.”
Credevo, o così mi hanno insegnato a convincermi, che Il piacere parlasse di piacere, chiaro, e di uomini e donne che provano piacere. Secondo me è ‘veramente vera’ solo la prima delle due, o non si spiegano tutte quelle precise, dettagliate descrizioni dell’architettura capitolina.
“…avendo ancòra negli occhi la gran visione dei palazzi imperiali incendiati dal tramonto, rossi di fiamma tra i cipressi nerastri che penetrava una polvere d’oro.”
Nessuno, sottolineo nessuno, sottoscrivo nessuno usa la lingua italiana come D’Annunzio. E anche questo non è colpa di nessuno in particolare ma solo un dato di fatto.
Così oggi ho il privilegio di leggere queste pagine bellissime, dorate, incandescenti, poetiche, lente, sonnolente, estatiche. Le leggo e ci rivedo le scene girate da Sorrentino per La grande bellezza che gli è valso l’Oscar. Ossia le scene inframezzate alla trama, quelle in cui gli uomini ci sono e non ci sono, si muovono a malapena e se lo fanno lo fanno restano muti. Quelle scene lì. Sono le stesse, solo che un secolo dopo stanno in un film e non in un libro.
“Costeggiarono il Foro romano, il Foro di Nerva, già occupati da un’ombra azzurrognola, simile a quella de’ ghiacciai nella notte.”
L’uomo c’è ma non è che un elemento di disturbo, nel migliore dei casi uno spettatore. Il suo passaggio, rapido e ininfluente, non è destinato a lasciare traccia duratura. Serve giusto, nel più ampio schema delle cose, a risvegliare voci nascoste e sopite nell’anima della pietra. Nulla più.
“Roma, in fondo, si disegnava oscura sopra una zona di luce gialla come zolfo; e le statue in sommo della basilica di San Giovanni entro un ciel viola, fuor della zona, grandeggiavano.”
Infatti Andrea Sperelli non è di fatto che un inconcludente. Lui non risolverà mai il suo processo di fermare il tempo, arrestare il decadimento e sconfiggere la morte. La pietra, lei invece sì. Lei può, e lo fa. Da sempre. La vita è piacere, ma la pietra è il vero amore, è questa la grande differenza, la vera grande bellezza. E si sa bene, tra il piacere e il vero amore, quale dei due può durare in eterno e quale invece sicuramente perisce.
“Erano al principio della via de’ Condotti; e vedevano, al fondo, la piazza di Spagna illuminata dalla piena luna, la scala biancheggiante, la Trinità de’ Monti alta nell’azzurro soave.”
Tutto di Andrea Sperelli è in qualche modo finzione, con gli altri e con se stesso. E lui ci sguazza dentro, ne va quasi fiero. Prova una specie di sincera pietà per chi crede alle sue menzogne, eppure continua a dirle, riconoscendo il suo stesso degrado. Ma mai, non una sola frase nel libro assume la stessa posizione dispregiativa o lo stesso atteggiamento di sprezzante commiserazione nei confronti della maestosa bellezza della città in cui la scena prende azione.
“Roma splendeva, nel mattino di maggio, abbracciata dal sole. Lungo la corsa, una fontana illustrava del suo riso argenteo una piazzetta ancor nell’ombra; il portone d’un palazzo mostrava il fondo d’un cortile ornato di portici e di statue; dall’architrave barocco d’una chiesa di travertino pendevano i paramenti del mese di Maria.”
Roma, Roma, sempre Roma.
Perché è l’antica città la vera protagonista del romanzo, proprio come del film di Sorrentino. Non a caso l’Oscar è andato alla pellicola, non a una o più delle singole persone che hanno contribuito a realizzarla.
Simile a una gatta millenaria, Roma guarda sorridendo gli uomini, tutti ugualmente giovani ai suoi occhi, affannarsi dietro alle loro miserabili futilità e ai loro fuggivi intrallazzi amorosi. È lo stesso identico sguardo di un vecchio, ma un vecchio davvero vecchissimo.
Guarda caso: quand’è che si somiglia di più a una statua, a una pietra, a una fontana, a un cornicione o a un fregio, se non da anziani, quando persino le ossa tendono a pietrificarsi come anticipando la lunga immobilità che sanno attenderle?
“Roma, d’innanzi, si profondava in un silenzio quasi di morte, immobile, vacua, simile a una città addormentata da un potere fatale. Tutte le case, le chiese, le torri, tutte le selve confuse e miste dell’architettura pagana e cristiana biancheggiavano come una sola unica selva informe, tra i colli del Gianicolo e il Monte Mario perduti in un vapore argentino, lontanissimi, d’una immaterialità inesprimibile, simili forse ad orizzonti d’un paesaggio selenico, che suscitavano nello spirito la visione d’un qualche astro semispento abitato dai Mani. La Cupola di S. Pietro, luminosa d’un singolare azzurro metallico nell’azzurro dell’aria, giganteggiava prossima alla vista così che quasi pareva tangibile.”
Addirittura qui la città si spinge al di là dei limiti del pianeta Terra e si compenetra col cosmo intero.
La verità è che D’Annunzio descrive le ville e le fontane e le piazze come fossero le parti del corpo di una donna. E la compenetrazione dell’amante e dell’amore degli amanti con Roma è identica a quella degli amanti tra loro stessi, se non ancora più intensa.
L’immenso piacere di sconfiggere il disfacimento appartiene alla città, non agli uomini. Il decadimento, il consumo, il passaggio non riguardano la pietra. Gli edifici restano lì, creature nostre come nostri figli ma ancora più longeve di loro. Dell’uomo è tutt’al più la malinconica bellezza del trascorrere, di essere e soprattutto essere a se stesso dolcemente necessario ma coraggiosamente non indispensabile.
L’ultima pagina del romanzo poi recita:
“Nella piazza del Quirinale, d’innanzi alla reggia, sonava una fanfara. Le larghe onde di quella musica metallica si propagavano per l’incendio dell’aria. L’obelisco, la fontana, i colossi grandeggiavano in mezzo al rossore e si imporporavano come penetrati d’una fiamma impalpabile. Roma immensa, dominata da una battaglia di nuvoli, pareva illuminare il cielo.”
Perché Roma?
Ma perché sì.
Niente come Roma è statue, scultura e architettura. E sono loro le protagoniste.
Loro che se ne fregano del terzo millennio, dei governi ladri e dell’apocalisse, e per quanto annerite dallo smog e intristite dall’inquinamento e menomate dai vandali se ne stanno ancora lì proprio come cento, seicento, duemila anni fa. Tali e quali.
Sono loro che si muovono – statiche – tra le persone, osservando i vivi come fossero loro i reperti di un’altra era.
Sono loro che parlano – mute – rendendo piacevolissimi ma dolcemente trascurabili i dialoghi degli attori dei film o dei personaggi dei romanzi o degli uomini della vita vera.
Ai libri e agli attori spetta l’arduo compito di racchiudere in una frase o in un’espressione del viso l’intera sofferenza umana. O il suo stupore. Che poi spesso sono due cose che finiscono per coincidere. Ma racchiudere in un volto duemila anni, quello solo una statua lo può fare.
E per raccontare questo non esisteva mezzo più adatto della prosa di D’Annunzio, che è pittura scultura musica teatro poesia, insomma tutte le nove Muse messe insieme – più il cinema, è superfluo dirlo.
Il piacere e la grande bellezza, in una parola il grande piacere, due gemelli nati a distanza di un secolo ma che si portano dentro la stessa potente rivelazione: la sensualità carnale e la bellezza dell’arte non sono altro che la stessa cosa.
Per concludere in maniera un po’ più pop, aggiungo: una serie TV su Il piacere di D’Annunzio… ci avete mai pensato? Se fatta bene, ne verrebbe fuori una cosa pazzesca!
Io ve la butto lì: se qualcuno legge queste parole e ne ha voglia mi faccia un fischio, ho già pronta la sceneggiatura del pilota qui sul mio laptop.
“Sul ponte apparve il Tevere lucido fuggente tra le case verdastre, verso l’isola di San Bartolomeo. Dopo un tratto di salita, apparve la città immensa, augusta, radiosa, irta di campanili, di colonne e d’obelischi, incoronata di cupole e di rotonde, nettamente intagliata, come un’acropoli, nel pieno azzurro.”
Gabriele D’Annunzio, ‘Il piacere’
© Maurilio Di Stefano, 2017
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