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LA CANZONE DELLA TERRA

  • Immagine del redattore: Milo
    Milo
  • 16 lug 2017
  • Tempo di lettura: 6 min

L’ho intitolato ‘La canzone della terra’, così, giusto per citare Battisti. Ho dovuto scriverlo stasera perché non ne potevo più, dopo aver passato l’intera giornata a postare foto della suddetta terra su Instagram e Facebook – ebbene sì, ci sono giorni che nascono e crescono più social di altri.

Quale terra? Proprio l’Agro Pontino.

Le voci della natura e gli alberi, qui, mi parlano davvero tanto. Troppo, a volte. Le cose che una volta ho scritto in quel racconto ambientato qui che parlava di guerra – lo sbarco di Anzio – a quanto pare sono molto più vere di quanto pensassi. Nel racconto scrivevo che gli alberi mi parlavano; oggi lo hanno fatto davvero.

L’albero di albicocche, per esempio, è me bambino e poi ragazzo a camminare sul vecchio cemento crepato dalle radici che c’era una volta e che ora è ricoperto di mattonelle rossastre.

I cachi che crescono proprio davanti la veranda della casa delle mie vacanze estive sono i frutti di ottobre, il mio mese – autunno.

Il vecchio melo che non dà frutti buoni da mangiare rappresenta i pomeriggi di caldo in cui non sono mai stato capace di dormire e da piccolo riuscivo persino ad annoiarmi e sudavo nel passare il tempo a raccogliere le mele cadute e lanciarle dall’altro lato del recinto dove c’è da sempre un grande prato incolto.

Il fico è dolcezza, agosto, mani appiccicose, ma anche le notti in cui seduto in veranda vedevo film con il computer portatile finché faceva giorno e ne facevo scorpacciate solitarie (sia di fichi che di film).

E l’olivo, che è ancora là e neppure lui dà frutti buoni, ‘lui’, sì, proprio come una persona, che poi al pari del melo sembra essere lì per tutt’altre ragioni che essere un albero… L’olivo, dicevo, è ancora là, e sotto le sue fronde ho letto negli anni non so più quanti libri, un numero di cui non potrei neppure azzardare una stima approssimata; di sicuro è a tre cifre però, sorprendentemente un numero più alto degli anni che ha l’olivo stesso.

Il giardino, il prato con la sua erba, perfino quando è secca, sono le mie estati, ogni mio giugno e ogni mio settembre, la mia libertà via dalla città rumorosa e sporca, le mie riflessione contemplazione e meditazione a stretto contatto con la natura che a Cinecittà proprio non riuscivano ad accendersi.

I grilli, i gechi, persino i pipistrelli, sono in realtà avventure notturne spese nel tentativo di sbarazzarsi di ogni genere di animali e animaletti penetrati in camera da letto e rifugiati dietro un mobile, e non sempre si riusciva a cacciarli, e poi di notte li sentivi raspare il legno del comò, ma l’epilogo era sempre lo stesso: perso ormai il momento del sonno, ritrovarsi a condividere improbabili ed eccessivi spuntini di mezzanotte con mia nonna – l’unica ancora sveglia, come sempre, dalla quale pare abbia ripreso i miei bizzarri ritmi circadiani – ad un’età in cui diete e salute non sono un pensiero puntebbasta.

Il pozzo in cemento cadente è il ricordo tangibile di quando da lì prendevamo non solo l’acqua per annaffiare le piante ma anche quella da bere e per cucinare; la strada asfaltata l’ho conosciuta che era solo terra e pietrisco; i pali della luce non esistevano e di notte le uniche luci della contrada erano stelle e satelliti e comete.



Questi sono i posti dove ho imparato che cos’è una stagione, le fasi della luna, che la mia bellissima Orsa Maggiore è visibile solo nell’emisfero boreale. Questa è la terra dove ho imparato a leggere la curva del sole, i messaggi delle ombre, i pronostici dei tramonti, ad ascoltare il vento, a indovinare la prossima pioggia.

Qui è dove ho sentito l’odore nauseante dei prodotti chimici riversati a notte fonda nelle campagne, segno che la mano dell’uomo sa distruggere meglio e con più perizia quando non vista ma che i suoi effetti non possono mai restare silenti a lungo.

Qui è dove ho imparato che i tralci di vite sono inestirpabili e torneranno sempre a sbucar fuori dal terreno dove hanno vissuto anche dopo decenni, come certi amori o dispiaceri o semplici abitudini; dove per la prima volta ho trovato la pelle di muta di un serpente in fondo a una catasta di legna secca; dove ho stuzzicato un rospo con la punta di un bastone terrorizzandolo a morte senza volerlo.

Qui ho osservato in lontananza i fuochi d’artificio a mezzanotte, durante le feste dei paesi limitrofi, senza che il suono mi arrivasse alle orecchie per via della distanza, disperso nei metri solo perché generato più lento della luce, e ho capito che se uno resta sempre a guardare la vita da troppo lontano si fa un’idea distorta della realtà, come per esempio che le esplosioni non producono rumore.

Ho corso tra i filari della vigna, da piccolo, fino al fondo del podere dei nonni che all’epoca mi pareva una nazione intera, piangendo per qualcosa di sciocco che però allora contava moltissimo ed era giusto piangerne; e poi per la rabbia ho fatto pipì su una zolla di terra dura per vederla ammorbidirsi e annegarci dentro le formiche, per gioco, poiché ancora non sapevo che ogni vita per quanto minuscola è sacra.

Ho reciso per divertimento la coda alle lucertole quando non avevo idea che funziona proprio come il cuore umano, ossia sa ricrescere, ma questo non vuol dire che tagliarne via un pezzo non faccia un male cane.

È qui che ho assaporato per la prima splendida volta la malinconia.



La malinconia delle partenze e dei ritorni, delle interruzioni e degli epiloghi, delle vacanze finite, dei giorni che s’accorciano, del rombo inquietante del mare di notte, delle cicale che friniscono disperate, dei gatti randagi uccisi per errore dalla fretta dell’asfalto, dell’odore acre del fumo degli incendi, di quello dolciastro e acidulo della frutta che marcisce caduta, un odore che è l’indizio universale della vita finita che si decompone al sole, e delle case abbandonate a metà del processo di costruzione e poi invase dagli sterpi, affresco simbolico della natura che palmo dopo palmo si riprende indisturbata i suoi spazi.

E poi la più grande e maestosa, la regina di tutte le malinconie, ossia quella priva di ragione alcuna, privilegio e dannazione di tutte le età successive a quella dell’innocenza asessuata (intendendo asessuaLE).

È una terra, questa, che sa essere molto e anche altro: oggi per esempio era reti arrugginite, campi riarsi e greggi di pecore, come un velo di poesia stanca che a saperla scovare è autunnale in qualsiasi periodo dell’anno e ad avere voglia ti consente di sperimentare su pelle certe strane sensazioni sonnolente che altrimenti puoi solo leggere in alcuni romanzi nostrani di inizio Novecento o del Secondo Dopoguerra.

E proprio per tutti questi motivi è una terra che mi ha sempre fatto stare così bene e sempre lo farà. Perché nonostante non sia altro che una pira rovente di ricordi, per me è tutto fuorché Passato.

Qui è dove mi sono incontrato per la prima volta, vagando con la mente mentre andavo in bicicletta o scrivendo il primo racconto a mano su fogli che poi ho buttato via, e dove poi mi sono perso credendo ai sogni sbagliati e alla fine ritrovato di nuovo chiacchierando con l’universo.

Questa terra per me è immagine di me, carne sangue e casa.

Non è memoria, ma idea, ideale e progetto.

Se riesco a piazzarla nel mio futuro, al termine del sentiero, e non al suo giovane inizio, dove restano tutti gli impacci tipici degli inizi, allora sarò sereno. E divino.

Perché è qui, esattamente qui, che vorrei morire, possibilmente in un qualche momento assolato del pomeriggio che è l’ora del giorno in cui della vita mi interessa poco o niente, dal momento che da sempre le albe mi riposano e i tramonti mi guariscono e le notti mi sono più indispensabili che necessarie, più amanti che amiche, più sacre che care.

Magari spargete le mie ceneri proprio sotto al vecchio olivo: se pure non darà frutto prenderà almeno il colore di tutte le pagine di libro che ho letto accanto al suo tronco.




E poi, pur ammettendo senza paura che possa essere pregiudizio o mera negligenza dell’occhio di chi qui scrive, la sfumatura carica e violenta del verde che le chiome dei pini dell’Agro assumono per contrastare il blu grigio ferro piombo delle nubi pronte a diluviare, io altrove non l’ho mai vista.




© Maurilio Di Stefano, 2017

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