NEAL MORSE A MILANO
- Milo
- 23 mar 2017
- Tempo di lettura: 7 min
UNA CURA PER LA TERRA
Cosa succede al mondo e al cosmo intero quando in un giorno che molte popolazioni della terra – ma non tutte – chiamano Ventitré Marzo Duemiladiciassette qualche centinaio di persone si riunisce in un locale di Milano per ascoltare la rock-band di questo signore?
Nel qualche centinaio di persone ero incluso anche io, è chiaro, e questo è più che un privilegio.
D’accordo, più di qualcuno dentro questo locale che porta il nome piacevolmente underground di Magazzini Generali, più di qualcuno è qui perché il batterista della Neal Morse Band è Mike Portnoy, che al di là dei centosedicimila progetti musicali che gestisce e ha gestito nella sua carriera ha scritto il suo nome nella storia del rock/metal fondando e mettendo tutte le sue anime nella band storica Dream Theater. Per chi non lo sapesse i Dream Theater non sono mai arrivati agli eserciti di fan dei Metallica e degli Iron Maiden, ma all’acme del loro periodo d’oro erano al gradino subito sotto.
Portnoy pur non essendo il batterista tecnicamente più ‘disumano’ della terra ha il suo innegabile, ingombrante e appariscente carisma, e possiede uno dei pochi pregi, forse l’unico davvero importante, che distinguono i musicisti da quelli che suonano più o meno bene uno o più strumenti: lui attraverso la sua batteria parla, attraverso la sua batteria canta, la suona come un pianoforte, o un’orchestra, la fa vibrare come una corda vocale, ci suda sopra, ci sputa persino, la tratta come un’amante e ci passa più tempo che con sua moglie, se la porta sotto la doccia, nei pensieri prima d’addormentarsi, le parla nel sonno e senza di lei appare nudo e privo di senso.
E dunque alcuni sono di sicuro qui grazie a lui e a tutto il suo lavoro precedente a oggi.
Eppure questo non basterebbe. Affatto. E infatti non basta. Un grande musicista da solo non basta a creare quello che c’è qui dentro stasera. Neppure cinque grandi musicisti, che sono quelli che abbiamo sul palco davanti agli occhi, basterebbero. Qui il totale surclassa di molto la somma delle parti, e tutto grazie alla guida artistica ma io direi spirituale dell’uomo di cui la band porta il nome.
Il genere musicale è quasi ogni genere: pop, rock, funk, fusion, country, gospel, spruzzate di blues e rapide incursioni nel metal, più tanto, ovviamente, tantissimo progressive, inteso come: ragazzi, sperimentiamo, sperimentiamo e basta, sky is the limit, e se Dio ci ispira un concept album di due ore di durata che non è altro che una sola lunga canzone, bè, noi la scriviamo e la incidiamo, poi starà a Lui creare per noi qualche pazzo che comprerà il disco e verrà a sentirci ai concerti – e finora ha sempre funzionato.
(Ho nominato Dio, con la D maiuscola, per un motivo ben preciso; ci tornerò sopra tra un attimo.)
Quanto al genere, appunto, non aiuta certo ad attirare milioni di persone come Elton John o Michael Jackson, eppure i fan che sono andati a comprarsi il disco doppio che dura quasi due ore e stasera sono qui sono un bel po’. Non solo: alcuni sanno addirittura tutte le parole delle canzoni a memoria, per lo meno dei ritornelli, e li vedi muovere la bocca perfettamente a tempo e del tutto incantati quando questo cinquantasettenne californiano sale sul palco e insieme ad altri quattro musicisti dal gusto e dalla musicalità sopraffini prende a cantare le sue canzoni.
Le reazioni naturali del pubblico sono due e soltanto due: estasiato rapimento e movimenti ondeggianti che non possono fare a meno di seguire il groove, il ritmo, il feeling che permea l’aria del club. E le due cose si alternano, a seconda di quando la musica si fa più travolgente oppure dolce ed eterea.
Le canzoni le scrive tutte lui, testi inclusi; è così da anni. Il numero delle canzoni e delle parole che ha scritto inciso e cantato in concerto probabilmente non lo ricorda neppure lui stesso. Il piacere, ma io direi la gratitudine che prova nell’essere lì a cantare per noi e per tutti è qualcosa che neppure il più cinico degli scettici riuscirebbe a mettere in dubbio.
Ma chi è mister Neal Morse, che una sera a Milano raduna nella sua ‘nicchia’ personale (e musicale) di mondo tutta questa gente che balla e si meraviglia all’unisono come bambini a uno spettacolo di magia?
È certamente un grande musicista, un grande artista, per alcuni versi un genio, di sicuro un vulcano di creatività, ma anche un marito, un padre di famiglia e un uomo dalla sensibilità e dalla spiritualità esageratamente belle. L’aggettivo belle, semplice così com’è, l’ho usato apposta, come faccio spesso.
Comunque, secondo la mia modesta opinione, l’unica parola che davvero le include tutte, le risolve e le supera è: profeta.
Lui cristiano lo è, e tanto; religioso da morire; e dunque il mio parlare di ‘profeta’ non può che solleticare le orecchie con evocazioni bibliche o visioni coraniche, insomma scene prodigiose o tragiche ma comunque sopra le righe, tratte da un punto qualsiasi dei libri sacri di una delle grandi religioni rivelate all’uomo.
Ma in un mondo come quello di oggi, che non credo sia il peggiore di quelli possibili (tipo quello di The Walking Dead) ma neppure il migliore (tipo uno in cui non c’è bisogno di discutere leggi sull’uso delle armi poiché armi non ne esistono affatto), in un mondo come questo nostro e odierno, dove davvero pochi si sentono a posto con se stessi e il messia, se mai tornasse, finirebbe probabilmente morto e abbandonato in un mucchio di stracci luridi all’angolo di una strada parecchio trafficata, be’, questo tastierista-chitarrista-polistrumentista cantante e compositore che sorride sul palco dei Magazzini Generali è una delle figure più simili a un profeta che mi vengano in mente.
Ne abbiamo un bisogno incredibile, di gente del genere, così come abbiamo bisogno di tenercela stretta quando capita in una forma qualsiasi nelle nostre vite.
Scrive le sue canzoni perché questo sa fare, non può farne a meno e così cerca di farlo anche bene, che non significa altro che metterci dentro tutto se stesso e tutto il pezzetto d’anima universale che gli è stato dato in prestito alla nascita.
Ogni suo disco è un viaggio interiore di un uomo che è tutti gli uomini, un percorso che comincia sempre nella polvere e termina nella luce, che trasforma le ceneri in pace, che ricostruisce dai ruderi, che ritrova la strada persa e ritorna a casa, senza lasciarsi spaventare dal fatto che questa casa sia davanti a lui e non dietro, che questa casa non l’abbia ancora mai vista in vita sua ma sempre conosciuta dentro di sé e dunque può riconoscerla appena la vedrà. Un uomo – o donna – che potrebbe essere chiunque di noi e che si prende/riprende il contatto con se stesso il cosmo intero e il divino una volta compreso che sono tutte e tre la stessa cosa.
E infatti le parole cantate di ogni suo concept album tematico partono da una qualche persona che si sente sola nell’universo per finire con quella stessa persona che sente la risposta a una domanda che non aveva neppure formulato ad alta voce. Si parte dal “vortice/tempesta della nostra vita” per arrivare alla “gloria eterna”, da una “città della distruzione” al “respiro degli angeli”, dall’essere “schiavo della tua mente” fino a cantare la “canzone della libertà”. Eccetera. Un eccetera bellissimo.
Allora mi chiedo mentre scrivo, e me lo sono chiesto per tutte le due ore e rotti di musica che questo signore americano e i suoi stupendi colleghi hanno preso così tanti voli per venire a proporci, cosa sta accadendo al mondo, al mondo intero in questo momento?
La risposta che mi sono dato è: il mondo in questo istante riposa, il mondo trae un microscopico ma forse non irrilevante respiro di sollievo, il mondo guarisce.
Mi va di ripeterlo, signori, perché è bello anche questo: il mondo guarisce.
Il profeta viene a raccontare le sue storie di speranza e passione, di crescita personale ed evoluzione spirituale, spedendo a tutti quanti vibrazioni positive e messaggi di fratellanza.
E attenzione, non lo fa parlando o predicando: la lingua è una cosa che nessun popolo ha in comune, e non serve finire a parlare di Babele, a volte non abbiamo neppure idea di cosa stia dicendo il vicino di casa che parla nel suo dialetto stretto.
Neal Morse non lo fa con i discorsi sulla politica o i diritti o la vita stessa: esistono ancora posti dove si uccide persino a norma di legge, o per usanza (il famoso e agghiacciante “s’è sempre fatto così”).
E non lo fa neppure con l’amore in senso stretto: neppure quello è sempre lo stesso, visto che per alcuni si manifesta come perversione e per altri come un matrimonio, per altri va bene solo se violento, per certi è poligamo e per altri no, altri lo permettono a dodici anni, alcuni lo concedono ai preti mentre altri no, altri ancora voltano il viso dall’altra parte se due persone si baciano in pubblico e sono dello stesso sesso.
Nulla di tutto questo.
Neal Morse e i suoi amici – stavo per scrivere di nuovo ‘colleghi’ ma non è quello che sembrano mentre sono sul palco, e aggiungerei beati loro – ce lo raccontano con la musica. Se esiste un linguaggio universale che è tutto e ovunque come dio, e che come dio non ha un suo opposto poiché persino il silenzio e il rumore ne sono parti integranti, allora è proprio la musica (secondo me). La musica che prende i sensi e la mente, il corpo e l’anima. Così che quando tutti si ritrovano a muoversi in sincrono al tempo della stessa canzone come membra dello stesso corpo, allora il mondo trae un sospiro di sollievo, si riposa, e guarisce.
Questo non fermerà i coltelli, né i proiettili né le bombe, né l’indifferenza né le differenze, ma potrebbe almeno farci fermare a pensare. Se un cinquantasettenne di Van Nuys, California, USA, riesce a riunire tutta questa gente e farla stare così bene soltanto in una sera dentro questo live club della periferia milanese, immaginiamo cosa succederebbe se di profeti ne partorissimo di più, se non ci spaventasse allevarli, se avessimo voglia di ascoltarli ogni sera, se una volta rientrati a casa dopo i loro ‘concerti’ tentassimo di fare con la nostra famiglia o gli amici quello che quest’uomo fa con i suoi fan – neppure troppi, ripeto, non è pop music da top charts.
Se lui viene qui – pagato, per carità – a parlarci del percorso di crescita dell’anima che può essere tranquillamente l’anima di ognuno di noi, chi se ne frega se si chiama Neal Morse e noi Andrea, se lui è americano e noi italiani o pakistani o australiani, se lui è cristiano e noi musulmani o ebrei, se lui canta in inglese e noi a scuola non avevamo voglia di studiarcelo, se lui ha moglie e figli mentre noi siamo gay o bisex o ancora vergini, se lui è bianco e noi siamo colorati, se lui è lui e noi noi… Chi se ne frega a questo punto persino se ci piace la musica che scrive o ci fa schifo?
Non possiamo semplicemente prestare ascolto alla chiamata del pianeta, che tanto diversa dalla musica non può essere, e lasciarci attraversare dal suo basso pulsante, dal suo ritmo sconvolgente, dalle note acute, da quelle gravi, dalle sue corde e dai suoi canti, dalla voce ispirata, dal messaggio, dall’armonia, dall’energia, dal suo bene? Sarebbe tanto male, o complicato, se potessimo per una volta fermarci ad ascoltare, appoggiare le mani sulle cosce e lasciarci sorridere?
© Maurilio Di Stefano, 2017
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