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RICORDO DI MIO PADRE

  • Immagine del redattore: Milo
    Milo
  • 3 gen 2018
  • Tempo di lettura: 6 min

MAURO CORONA E IL RICORDO DI MIO PADRE: UN RITORNO NOTTURNO


Comincio l’anno con un post introspettivo e personale. Che tradotto significa: potete anche non leggerlo. È solo che il Capodanno nella casa in montagna è stato fonte di riflessione, più che di ispirazione, e mi sembrava un peccato non raccogliere le idee prima che sfuggissero. Perché sfuggono, è una legge universale.

I libri di Mauro Corona giravano per casa da diversi anni, ma io non mi ci ero mai avvicinato perché ero troppo impegnato a leggere cose in lingua originale per migliorare ancora di più il mio Inglese prima di mettere in atto il progetto Emigrazione Definitiva.

Poi mi sono ritrovato a vivere di nuovo qui, cosa di cui oggi ringrazio, e mi sono detto: quel nome italiano, quei titoli, tutto quel parlare di montagna… ormai è un bel po’ che mi chiamano dallo scaffale (e forse anche da un posto che è un po’ più in là dello scaffale), perché non decidermi una buona volta e provare?

Così l’ho fatto. E non me ne sono pentito.

Non è solo per il legame che ho sempre sperimentato sulla pelle con i tragici fatti del Vajont di cui Mauro Corona parla tanto nei suoi libri (sono nato il 9 Ottobre); è proprio per questo aspetto, questa ideadella montagna. Ecco, definirei così quello che mi piace di più di come Corona ne parla nei suoi libri: la montagna è un’idea, qualcosa di superiore, che va ben oltre la metafora e l’allegoria.

Il parallelo tra il paesino friulano caro a Mauro, Erto, e i due paesi abruzzesi dove sono nati i miei nonni paterni e materni (e in uno anche mio padre, nel 1950 si nasceva ancora in casa) è stato strabiliante. Tutto il mondo è scritto con lo stesso linguaggio, è vero, ma lo stesso si può dire dell’Italia – quella di provincia, però; quella di provincia si somiglia molto più che le quattro o cinque città maggiori tra di loro.

Non avrei mai immaginato che nei suggestivi, delicati, ma a volte anche rozzi e selvaggi brani di Corona avrei ritrovato le cose con cui sono cresciuto. Poteva essere una qualsiasi delle mie nonne a raccontare quelle storie. Leggendo immaginavo persino la voce dell’una o dell’altra, e parlavano proprio come Mauro; solo con un accento un po’ diverso, più del Sud, diciamo.

Così, guidare nella notte di Capodanno da Roma al paese dei nonni materni è stato un viaggio indietro nel tempo e più in fondo nell’esistenza. Ritornare a un piccolo paese dalla grande città lo è sempre, non c’è scampo.

Si retrocede sia cronologicamente – è un po’ tornare indietro di alcuni anni nella nostra epoca, si sa, e non può che far piacere – sia meteorologicamente, perché se si è in estate lassù somiglia già all’autunno, e se è primavera lì è ancora inverno.

Infatti, tutto ha inizio dopo quella curva.

Chi ci è passato sa già perfettamente di cosa sto parlando.

C’è sempre quella specifica curva dell’autostrada o della statale – ogni posto ha la sua – oltre la quale la temperatura cambia d’improvviso. È un confine invisibile, persino insensato, ma palpabile. Un momento la schiena ti si appiccicava al sedile per il sudore, il momento dopo devi alzare il finestrino perché hai freddo al braccio. È sempre la stessa curva, ogni volta, ogni anno, e la temperatura cade di quel tot di gradi a seconda della stagione.

In quel momento sai che sei entrato nel regno della montagna, fatto delle sue regole, delle sue genti, del suo linguaggio intricato di neve e boschi, caccia e funghi, gelo e antiche storie di stenti.

La notte, specie se ha smesso di piovere da poco, ti ritrovi sulla strada tutta una serie di presenze che potrebbero essere i tuoi animali totem: rospi, volpi, cinghiali, mucche. Di giorno rapaci di ogni genere nei cieli, aquile, falchi, grifoni, astori, poiane, e poi ramarri, lumache e d’estate qualche vipera addormentata mentre cercava di scaldarsi un po’ il sangue sull’asfalto rovente.

Ancor più sconvolgente è la consapevolezza che nel cuore oscuro e umido dei boschi vive addirittura qualche orso; ma quelli non li avvisterai di certo, ed è meglio così.

I lupi sì però, e senza neppure grande difficoltà: in paese raccontano di averli visti da dietro i vetri delle finestre zampettare nella notte nella piazza vecchia davanti la torre dell’orologio. Che emozione dev’essere, e che dolce sensazione di protezione, proprio come quando da dentro casa osservi il diluvio e ti senti in un utero materno: è qualcosa comune a tutti gli uomini e a tutte le civiltà, credo.

Poi, se mai avessi il dubbio di star sognando, te lo fugherà il risveglio al mattino, perché se non è caduta troppa neve le impronte dei lupi saranno ancora là.

Ma il bello della montagna è che conduce sempre lo sguardo alla cima. E da lì, si sa, il passo al cielo è breve, immediato, quasi spontaneo. Quindi il piacere indicibile di ritrovare la luna, Sirio, l’Orsa Maggiore, grossa madre siderale e punto fisso del nostro emisfero, e tutte quelle stelle di cui non sai i nomi e che con l’inquinamento luminoso cittadino non vedi mai e che potrebbero anche esser già morte da millenni ma a te non interessa perché almeno per tutta la durata della tua vita umana sono là che splendono sempre uguali a se stesse.

Anche quando ero a Los Angeles era lo stesso cielo, e questo è qualcosa che mi ha sempre stupito e confortato allo stesso tempo. Sapere che posso vedere le stesse stelle in almeno metà del mondo mi pare incredibilmente simile al pensiero che ci sia mio padre in almeno metà delle cose che faccio.

Quei piccoli gesti ripresi da lui senza volerlo, per trasmissione genetica e osmosi da convivenza, che aumentano di numero e di somiglianza man mano che vado avanti con l’età. Sono queste le cose che tengono in piedi il mondo, è questo il tessuto più profondo del cosmo intero: le piccole, semplici cose che derivano dai padri e di cui Corona fa sempre menzione nei suoi libri.

La posizione delle dita quando ti risistemi gli occhiali, il gesto con cui cambi le marce o sistemi il biglietto dell’autostrada nell’aletta parasole, il caffè corretto con una lacrima di sambuca che ultimamente mi dà così tanto gusto. Cose così. Sono più di un linguaggio: è un intero universo, che poggia sulla sua rete primordiale di richiami e simboli.

E allora capisci che quello che dicono dei padri, o degli antenati in generale, non è affatto vero. Non sono loro che camminano con noi sulla terra, ma siamo noi che camminiamo con loro in cielo. Sono loro che ci spingono verso l’alto, al di fuori di noi stessi, verso una parte di noi più autentica e completa.

Ecco perché un viaggio notturno di questo tipo è un viaggio di ritorno, di ritorno in ogni senso. E ogni tanto serve: è proprio il ritorno a ciò che si è che spinge in avanti verso ciò che saremo. O almeno è così che a me piace pensarla.

Perché la verità è che, al di là degli sforzi, la vita non si può affatto prevedere. Poco più di un anno fa vivevo così lontano da qui, dall’altro lato dell’Atlantico, mentre stanotte guido ancora una volta attraverso l’Abruzzo, tra i suoi polmoni verde scuro, gli occhi languidi color notte e nuvole, le lacrime di neve, le rughe di roccia e certe profonde cicatrici sismiche mai rimarginate.

E il ricordo di mio padre, qui, nella regione da cui deriva tutto quanto il sangue che mi scorre nelle vene, mi assale ogni volta più travolgente; sarà che mi sto pian piano avvicinando all’età che aveva lui quando lasciò questo mondo.

È una sensazione dolce, aggressiva, muscolare.

A volte lo sento così vicino da riuscire a percepirlo seduto accanto a me in auto. E parliamo, finalmente da uomo a uomo. Lui ovviamente in dialetto stretto, io no perché mi sono sempre vergognato.

Poi ascoltiamo le vecchie canzoni dei suoi anni.

Sono certo che se allungo il braccio posso stringere la sua mano, trovandola più vecchia dell’ultima volta che l’ho vista ma non per questo meno bella.

E lui mi sorride.

Perché no? In fondo è il più semplice dei gesti. Servono molti meno muscoli che per restar seri.

Mi sorride, sì.

Lui che, dovunque si trovi ora con lo spirito, certo dimora in essenza tra queste montagne più che in ogni altro posto dell’universo.



© Maurilio Di Stefano, 2018

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