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TURNER E I LANGOLIERI

  • Immagine del redattore: Milo
    Milo
  • 6 mag 2018
  • Tempo di lettura: 6 min

Chiostro del Bramante.

Un 5 maggio uggioso e umido che poco ha a che fare con quello che ci si aspetta da Roma in questo periodo dell’anno.

Ma questo alle quattro Sibille non interessa nulla: loro se ne stanno al coperto e al calduccio dentro la chiesa di Santa Maria Della Pace esattamente nello stesso punto da più di cinquecento anni, proprio dove Raffaello Sanzio le sistemò a colpi di pennello nel biennio 1514-15.

Pochi metri più in là, al piano superiore, riposano invece ai muri, anche se loro soltanto per qualche mese, le opere di un altro grande artista: William Turner. Sono quasi un centinai0, prestate dalla Tate di Londra e sistemate sotto l’alone di una luce flebile e riposante per rispettare le rigorose richieste degli Inglesi, parafrasando i cartelli appesi in ogni stanza dell’esposizione.

E’ la prima volta che mi avvicino così tanto a Turner, sia fisicamente che artisticamente. Tra l’altro, per puro caso, lo sto facendo esattamente una settimana dopo aver visitato la mostra dedicata agli acquerelli di John Ruskin (che si ispirò proprio a Turner), “Le Pietre di Venezia”, tenuta a Venezia in Palazzo Ducale. Così è come fare un passo all’indietro nella storia, prima l’allievo poi il maestro.

Ora, io non starò qui a parlare di Turner e della sua arte. Non in modo canonico almeno. Primo perché non ne ho le competenze, secondo perché non sarei me stesso neppure un po’. Tenterò di arrivarci, come al solito, da una di quelle viuzze laterali e nascoste, che sono quelle che amo di più.

La prima sensazione che si ha davanti a una qualsiasi delle opere di Turner, soprattutto quando se ne hanno diverse davanti agli occhi e tutte raccolte insieme nella stessa stanza, è incanto. Un bianco stupore, una meraviglia da bambini. Una sensazione di pace totale che chiunque sia sensibile a questo tipo di stimoli non può non associare a certi ‘posti’ raggiunti durante la meditazione.

Poi, andando un po’ più a fondo e lasciando intervenire il cervello per mettere in parole quello che si prova nell’anima, si comincia a riflettere, e a vedere nei suoi acquerelli (che nell’audioguida e nelle didascalie del Chiostro si trasformano a piacimento in acquArelli una volta sì e una no) una precisa gamma di cose: la visione bella e dolce dei paesaggi naturali, il romanticismo con e anche senza R maiuscola, l’uso dei colori e delle sfumature, la luce, la pace, magari la malinconia, la solitudine, l’inverno, la vecchiaia.

Tutte cose che forse ci sono e forse no. Alla fine chi sa dirlo cosa si può o non si può ‘vedere’ in un’opera d’arte?

Quello che di sicuro c’è però, almeno per come la vedo io, sono i Langolieri.

I Langolieri sono una di quelle cose che o si è appassionati, direi nerd di certi argomenti, e allora si sa perfettamente di cosa stiamo parlando, o non se ne può avere la minima idea.

‘The Langoliers’ in lingua originale, si tratta di un racconto lungo di Stephen King, edito nel 1990 in apertura al primo dei due volumi che compongono la raccolta di quattro novelle intitolata ‘Quattro Dopo Mezzanotte’. Il secondo racconto, per capirci, è quello da cui è stato tratto ‘Secret Window’, il film con Johnny Depp del 2004.

Ancora ricordo la notte – potevo avere quindici o sedici anni – in cui cominciai Quattro Dopo Mezzanotte perché non riuscivo a dormire. Stephen King era stato ed era ancora la colonna ‘sonora’ della mia adolescenza, e sin dalle prime pagine ‘I Langolieri’ mi prese allo stomaco e mi trascinò nel suo mondo magico e disturbante. Quello era ancora un libro, uno degli ultimi a mio parere, di uno Stephen King davvero al massimo della sua forma.

L’idea della storia è semplice quanto geniale.

Un piccolo gruppo di persone che si trova a bordo di un volo Los Angeles-Boston si sveglia e scopre che gran parte dei passeggeri e tutto l’equipaggio sono scomparsi. Loro, meno di dieci, sono ancora lì perché erano gli unici ad essere addormentati nell’istante in cui l’aereo attraversava per caso un varco spazio-temporale.

Per fortuna – o per forza, altrimenti il racconto non sarebbe mai esistito – uno di loro è un pilota di linea che riesce a far atterrare l’aereo in un piccolo aeroporto del Maine, lo Stato in cui, come i fan sanno bene, quasi ogni storia di Stephen King è ambientata.

In aeroporto, un posto deserto situato in un mondo altrettanto deserto, dove non c’è corrente elettrica, i fiammiferi non si accendono e cibi e bevande non hanno alcun sapore, il gruppetto riesce a capire di essere finito in un’altra dimensione.

Non una qualsiasi dimensione parallela però: si tratta nello specifico del “recente passato”, un tempo situato leggermente indietro rispetto al presente nel quale il volo proveniente da Los Angeles ha attraversato il varco e che in quanto tale non esiste. O comunque non esiste più.

Motivo per cui sta per essere rimosso in maniera definitiva dai Langolieri, creature soprannaturali preposte allo scopo di divorare, più precisamente di ‘consumare’ ciò che è ormai passato; spazzini dimensionali, potremmo dire, il cui imminente arrivo è annunciato da un rombo inquietante che si avvicina all’orizzonte.

Il resto della storia non sta a me svelarlo, perché detesto gli spoiler e se mai aveste voglia è un racconto che vale davvero la pena leggere – alta letteratura d’intrattenimento, la definirei.

Io mi fermo qui, perché è qui che, nella mia bizzarra associazione di idee, l’opera di Turner e quella di King s’intersecano, e ormai avrete già capito cosa sto per concludere.

Ebbene gli stupendi acquerelli di Turner, per me, incorniciano e immortalano esattamente quella dimensione lì, quel recente passato, appena trascorso, deserto e immobile, di cui presto qualcuno verrà a sbarazzarsi. Qualcuno che lo fa “di mestiere”. Qualcuno che non siamo noi, né il pittore stesso, né nessun altro essere umano.

Io lo reputo un talento meraviglioso.

Lo stesso si ritrova in alcune opere di pittori come Dalì, De Chirico, volendo anche Yves Tanguy. Solo che loro non riescono a farlo attraverso la ‘semplice’ raffigurazione di vallate cieli montagne fiumi e lagune. Loro hanno bisogno di distorcere in qualche modo le proporzioni, il tempo, la realtà intera. Loro hanno bisogno di ‘surrealtà’, appunto.

Turner no.

È come se quei pittori rappresentassero la dimensione dei Langolieri sulla base di racconti di altra gente, per quanto attendibili, mentre Turner ci fosse stato di persona, l’avesse vista con i propri occhi e la riportasse in pittura. Una cosa che, come ho scritto prima di oggi, secondo me ha in comune con Hieronymus Bosch.

Non è desolazione, non è decadimento, non è disfacimento, non è decomposizione. E’ solo passato immobile. Si tratta di un mondo in attesa, un mondo che aspetta che qualcosa arrivi, un mondo che sente che qualcosa sta per accadergli pur essendo consapevole di non esistere più.

Niente colori sgargianti, solo costanti filtri di umidità e nebbia, tanto più spessi quanto l’artista andava avanti con l’età; come se ci volesse dire che invecchiando ci si avvicina sempre più al varco dimensionale che porta al mondo dei Langolieri. Chissà, forse in punto di morte ci verrà dato anche di gettarci un occhio e spiare di sfuggita da uno spiraglio della porta accostata quel mondo di ‘cose’ che sono già morte ma si trovano ancora nel limbo dove saranno disgregate per poi essere riassemblate e promosse a ricordi.

Le figure umane sono rarissime, e quando presenti non hanno la consistenza dei vivi né l’evanescenza degli spettri. Somigliano più che altro a una ronda di sentinelle in cerca di eventuali superstiti ancora vivi finiti per errore nel loro mondo, proprio come nel racconto di King.

Qualcuno di loro utilizza persino una lanterna allo scopo, come nell’acquerello su carta Interior Of A Prison, Interno Di Prigione, del 1810.

Ecco perché Turner ci rapisce e ci lascia senza parole: perché ci prende per mano e ci porta in una dimensione per definizione irraggiungibile in quanto inesistente. Solo che lui lo fa in silenzio, senza produrre il frastuono assordante dei Langolieri. E con delicatezza, poesia, con l’uso esclusivo dei colori e della luce, attraverso un universo visivo tutto personale e un’abbondanza di dettagli che per un qualche prodigio non diventa mai eccesso.

Ma in fondo, come sempre quando si parla di arte, tutte queste non restano che chiacchiere; il tentativo di tradurre in parole le sensazioni e le intuizioni che ti raggiungono mentre osservi delle immagini e che parole non lo diventeranno mai, non fosse altro perché non ne hanno la minima intenzione.

Al di là di questo allora, c’è una sola cosa da fare: prendere le opere di Turner e perdercisi dentro, perché sono davvero belle. Belle e basta.


“L’indeterminatezza è il mio forte.”

Joseph Mallord William Turner



© Maurilio Di Stefano, 2018

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