UMBRIA E MARCHE: GIORNO 1
- Milo
- 3 set 2018
- Tempo di lettura: 4 min
Perugia
È una regione di eremi, colline e contatto con il divino. Volti un angolo e trovi borghi medievali, rocche sui cocuzzoli e vecchi conventi che sorgono nel bel mezzo del nulla. Ne volti un altro e la natura e i suoi fiumi ti sorprendono di una bellezza intima, raccolta, che favorisce la spiritualità: l’assenza di vasti orizzonti ti obbliga a rivolgere uno sguardo più attento all’immensità interiore.
“Qui il tempo si è fermato. Qui tutto è rimasto come allora. Qui sì che puoi staccare, meditare, fermare i tuoi ritmi soliti per un po’ e ricaricarti.”
Quante volte l’ho sentito dire. E ci ho creduto, anche.
Poi, pensandoci su stamattina mentre guidavo, ho realizzato che invece secondo me è tutto il contrario. È il tempo ‘normale’ – cioè il solito spazio della vita di ogni giorno - a essere irrimediabilmente fermo. Ed è proprio quando abbandoni quell’accozzaglia di follia e frenesia che include invidie e gelosie, INPS e imposte, PIL e banche, terrori e terroristi, è proprio allora che il tempo ricomincia a scorrere.
Un giorno di quella vita è spesso e volentieri intercambiabile con un altro, non fa alcuna differenza. Mentre ogni singolo giorno di meditazione, studio, riflessione, raccoglimento, musica e, perché no, preghiera, di qualunque tipo essa sia, ti porta sempre un po’ più oltre, più vicino al tutto delle cose.

Facendo un passetto in avanti direi che questa regione che pulsa tenue, cuore centrale della penisola, è un posto/tempo perfetto per liberarsi della moderna idea di tempo lineare e tornare a spargersi nel cosmo e nella sua ciclicità infinita, l’unica vera eternità che abbia un senso immaginare.
Riconnettersi alla natura, ai cicli del giorno e della notte, alle lune, alle stagioni, persino alle preoccupazioni agricole e climatiche, pur non facendo il contadino o l’allevatore di mestiere. Un sano paganesimo, rifacendosi strettamente al suo significato etimologico.
E quale posto migliore della regione degli eremi, delle colline e del contatto con il divino? La terra che trasuda roccia e Medioevo da ogni poro della sua pelle verde, lontana dal mare in qualsiasi suo punto...
Ma c’è ancora di più. Un ulteriore punto a favore che deriva proprio da un paradosso intrinseco: ossia scegliere la via della spiritualità proprio qui, indipendentemente dal proprio credo o assenza di esso. È da sempre la regione di San Benedetto, di Santa Rita, di San Francesco, e allora a maggior ragione, per come la vedo io ha ancora più senso proprio per questo.
La bella notizia è che non c’è bisogno di alcuna religione per vivere la propria spiritualità; ma esserne circondati, intrisi, può aiutare, se uno ha voglia di rispettare gli altri e guardare le cose da un’altra prospettiva.
Godersi un po’ la propria dimensione divina nel luogo più religioso, il proprio paganesimo nella regione più cristiana, la propria innocua ‘eresia’ nel territorio più cattolico che esista. Perché no?
E scrivere tanta poesia profana proprio nel posto in cui tutto è un inno sacro.
Cercare gioia, sorriso, nel luogo dove ogni chiesa è circondata da passione cristica, strazio di martiri e stigmate. Cercare la pace dell’anima in un posto dove ogni corpo di santo, fino all’ultimo ossicino, è trasformato in reliquia che non dorme mai per tenere alto il tenore di un business che è ancora più macabro delle ossa stesse. Cercare i fiori tra le rocce e farne dei versi decadenti, persino una canzone del tutto atea, addirittura una ballata blasfema.
Perché gli uomini continuano a uccidersi per le parole, il loro significato e chi debba avere il potere di stabilirlo; ma la verità è che quel fiore è sempre un fiore, quella roccia è sempre una roccia, e lo stesso vale per le persone, la bellezza, lo spirito, il cosmo. Penne di certo più illustri della mia lo hanno scritto molto prima e molto meglio di me.
Tutto è tutto e non ha nomi, neppure uno. Siamo noi che siamo arrivati a dargliene, a separare quel tutto in parti e pezzi, ed è da lì in poi che non siamo più stati in grado di capire nulla di noi stessi.

Ho passato il pomeriggio di questo primo giorno di viaggio perso tra i dipinti, gli affreschi e le pale d’altare del Perugino, del Pinturicchio, del Sassoferrato, e di tutti gli altri. Ebbene, dove molti vedono santi, gesubambini, aureole e madonne, dove molti vedono adorazioni, annunciazioni e deposizioni, io ho visto una sola cosa: colore.
Quel colore.
Tutto quel colore.
Il colore.
Non c’era bene né male in quel colore, né luce né ombra, né pace né guerra, né torto ragione ricchezza e povertà.
Era solo se stesso. Colore. E non sapeva di chiamarsi così.
Basta questo per come la vedo io a definirla arte sacra. Se sacro può vuol dire questo, allora ci sto.
Colore.
Non esisteva conflitto, contrasto o conclusione in quel colore. Tutto era equilibrio, eterno movimento che rimescola se stesso e spirale quantica che si svolge e riavvolge a tempo con la mente del pittore.
Tutto era là, e non c’era neppure bisogno di allungare la mano per prenderlo. Bastava dimenticare se stessi e perdersi lì dentro, dentro a tutto quel colore, per capire in un attimo che non c’è nulla da capire.

© Maurilio Di Stefano, 2018
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