UMBRIA E MARCHE: GIORNO 2
- Milo
- 4 set 2018
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 22 nov 2018
Ipogeo dei Volumni, Perugia – Todi – Deruta – Lago di Corbara – Madonna dei Bagni, Casalina
Scrivo queste parole nella casa di Perugia, seduto sul divano, con un cagnolino che zampetta sulla mia testa al piano di sopra e fuori dalla finestra i suoni del traffico, della vicina stazione ferroviaria, le urla di un ubriaco che parla una lingua incomprensibile ai comuni mortali, le luci del profilo della città immersa nella notte, i primi odori di un autunno che si avvicina.
Le giornate sanno essere meravigliose nel modo più imprevedibile, e sono sempre le cose inaspettate le più meravigliose.
L’Ipogeo è qualcosa di stupendo. Velata di abbandono, l’intera necropoli è una fucina di pensieri laterali e nascosti per la mente libera che abbia voglia di aprire le sue porte.
In fondo, chi erano davvero questi Etruschi?, continuavo a chiedermi. E che belli i loro caratteri di scrittura che si leggono da destra a sinistra. Per non parlare dei loro nomi alieni, quasi da saga fantasy: Aule, Arnth, Thana, Larth, Velia. Pura poesia.
Hanno anche loro a che fare con le origini ancora sconosciute dell’umanità, come gli Egizi, i Sumeri e tutti gli altri?
Perché ci affascinano così tanto le antiche tombe?
Perché la morte mi sembra un pensiero tanto angoscioso e opprimente soltanto quando la guardiamo in maniera astratta?
La terra dà la vita, alla terra si torna, ma soprattutto: solo la terra sa conservare le cose così bene.
Se la memoria dell’umanità resta nascosta, silente, ma viva, in quello che qualcuno ha chiamato inconscio collettivo, allora cosa possono ricordare le generazioni di lucertole vissute in questo posto? Cosa le popolazioni di insetti del sottosuolo nascoste nei più bui recessi della necropoli, le cui famiglie risiedono e si riproducono qui da prima che gli scavi riportassero i resti etruschi alla luce, forse da prima ancora che gli Etruschi stessi si insediassero in queste zone? Il solo pensiero mi dà le vertigini.
Per non parlare della terra stessa. Cosa ricorda la terra stessa? E noi, come parti della terra, possiamo avere accesso a questa conoscenza sconfinata? Io suppongo di sì. Basta saper ascoltare.

Todi, poi. La sorpresa delle sorprese. Mai sottovalutare le risorse di un borgo medievale che non hai mai visitato prima.
La chiesa della Nunziatina, la piccola Sistina di Todi, rapisce e incanta. È un’esplosione di luce, sfumature cromatiche e stupore perfettamente conservata e minuziosamente decorata in ogni sua superficie, angolo, ritaglio di arco o colonna.
Sulle ‘Cose consigliate da vedere’ non è quasi neppure menzionata su Internet; a qualcuno deve andar bene così, suppongo. La verità non la trovi scritta da nessuna parte, ma la cultura e la bellezza, con quelle hai sempre speranza: è da solo che te le devi andare a cercare da te. E il biglietto d’ingresso per questa bellezza in particolare costa due miseri Euro!
Stesso dicasi per Deruta.
La chiesa di San Francesco è aperta e dentro una signora prova delle note all’organo, incurante della penombra, di noi turisti e del suono a dir poco incantevole di una pioggerellina ormai autunnale che picchietta leggera contro le vetrate dell’abside.
È davvero bellina – la chiesa, non la signora – e affascinante il Museo della Ceramica. Ma è la chiesa di Sant’Antonio Abate la chicca inattesa. E con lei il signor A.
La chiesa è chiusa. Come si può fare per visitarla? Le chiavi potete chiederle alla Pro Loco, laggiù, sulla piazza accanto alla fontana.
Bene.

Ma prima uno snack veloce a base di pop-corn nel bar che mantiene ancora le sedie, l’arredamento e persino il biliardino tali e quali a come andavano di moda in ogni locale italiano negli anni Settanta. Dico al proprietario che apprezzo davvero il suo gusto e quest’idea del vintage, mi ricorda quand’ero bambino e le mie vacanze di allora. Lui risponde che glielo dicono in tanti ma che non è affatto un’idea, è semplicemente che le cose non le ha mai sostituite perché sono ancora buone, tutto lì.
Esce fuori che è un nostalgico, uno di quelli convinti che quarant’anni fa era meglio la vita, era meglio l’amicizia, erano meglio l’Italia e il mondo intero. E forse ha ragione e forse no, ma di sfuggita mi chiedo se tra altri quarant’anni per caso non penseremo lo stesso del 2018. Nel dubbio trattiamolo bene, direi.
Il barista mi mostra una stanzetta interna decorata con vecchi poster pubblicitari del Campari, foto dei giovani di Deruta negli anni Settanta e un manifesto dell’Italia Nazionale di Calcio del 1982, quella di Zoff Cabrini Tardelli eccetera che vinse i Mondiali, quella che il tipo del bar definisce “la vera nazionale, l’unica, di quando tutti erano acqua e sapone.” Cosa voglia dire con quest’ultima affermazione è chiaro, ma mi piace lo stesso ingannare me stesso e fingere di non capire.

È stato un bel momento, un altro di quelli in cui il tempo degli uomini vivi si è fermato e ha ripreso a scorrere quello dell’anima totale – dell’anima collettiva, diciamolo dai…
Dicevo del signor A. È lui che mi accoglie nella Pro Loco. È basso, tarchiato, la sua voce tremula quando parla.
Lui ha le chiavi, racconta, della chiesa di Sant’Antonio Abate, e sarà contento di farmi strada. Se solo ho la pazienza di stare al passo della sua gamba offesa – di recente ha subito un incidente, continua a raccontare – mi mostrerà la chiesa e mi dirà anche ‘due cosette’. Tempo, fuori dal tempo degli uomini, non ne manca mai. Così gli dico sì, ci mancherebbe, faccia con calma che fretta non ne abbiamo.
Ora, ci si potrà credere o no, ma la stessa cosa mi è capitata già mille altre volte qui in Italia: a Tuscania in provincia di Viterbo, in un convento di frati cappuccini nel cuore della Sicilia, a Pompei…
C’è sempre un signor A, legato a questi posti mistico-religiosi. Una figura bislacca, anziana e quasi sempre malandata – acciaccata è il termine esatto – che mentre racconta della statua di Sant’Antonio, degli affreschi di Perugino e Caporali, di Pinturicchio che sposò una bella ragazza di Deruta e andò a vivere in una casa ‘qui dietro l’angolo’, e della vecchia acquasantiera ‘là in fondo’ (lo dice senza voltarsi) murata sulla parete della chiesa dai primi anni del 1300 che è in realtà un’antichissima urna cineraria etrusca in marmo… che mentre racconta tutto questo ci aggiunge del suo, parla di suo figlio, di sua moglie, rimarcando dolci scuse non necessarie per l’arteriosclerosi che l’ultimo colpo, l’incidente di cui sopra, gli ha pure acuit0 e dunque la sua mente non è più scattante come una volta.
Seduto di spalle rispetto al meraviglioso affresco di Caporali (seduto di spalle rispetto a tutto), spiega che quella figura cristica che sovrasta il capo della Madonna è curiosa e unica nel suo genere: somiglia infatti a uno Zeus greco con arco e quattro frecce, ognuna delle quali rappresenta una delle principali cause di morte per l’umanità dell’epoca: inondazione, peste, guerra e carestia.
Ma la cosa veramente interessante è un’altra. Vale a dire…
C’è sempre uno di questi uomini che resta in attesa di uno come me che per i vecchi va matto. Ombre sole e solitarie, malinconiche, cadenti, che sembrano pronte a dissolversi al primo soffio di vento un po’ più forte. A qualcuno sembrerebbero un po’ matti, ma sono pieni di cultura, e gentili come pochi. A me ispirano una tenerezza infinita.
Ti raccontano tutto ciò che sanno condividendolo con un’umiltà da far spavento, e ancora nel 2018 usano parole e frasari come: “bontà loro”, “io signori miei non sono nessuno ma vi dico la mia” e “altre chiese al mondo SIMILARI a quella non ne ho mai viste.”
Uomini così, realizzo con una triste contrazione del petto, stanno scomparendo. Forse ha ragione il tizio del bar. E, almeno secondo me, è un vero peccato.
Il signor A mi racconta persino dettagli della sua vita privata, della sua famiglia, del divorzio, dei figli e del tempo che ‘dona’ alla Pro Loco di Deruta.
Lo fanno sempre – raccontare di sé. Come se credessero che presto o tardi, una volta morti, nessuno si ricorderà più di loro, perché i più di noi mancano non tanto della pazienza quanto del desiderio di ascoltare.
Lo fanno sempre – raccontare di sé – e quando lo fanno il loro accento dialettale della zona riaffiora e si fa via via più marcato, che è un ritornare all’infanzia spensierata, e vederselo accadere davanti non ha prezzo.
Mi viene sempre voglia di abbracciarli, di adottarli come nonni ad honorem, ma poi realizzo che il matto sono io e che probabilmente tutto ciò è solo nella mia mente sempre in cerca di commozione. Il mondo funziona in un altro modo, per lo più. Non c’è spazio per epifanie e miracoli. E una volta finita la visita di questa o quella chiesetta ricomincia la vita, quella ‘reale’, quella del tempo degli uomini che scorre con più fretta e molta meno bellezza del tempo della bellezza.
E così il signor A torna ad abbassare il capo, a turbinare pensieri e a camminare lento sulla gamba offesa.
Si congeda salutando un gatto che sonnecchia in un grosso vaso di fiori fuori dalla chiesa. Richiude a chiave la vecchia porta di legno, guarda di sfuggita il micio e gli dice qualcosa del tipo: “E tu che fai lì, dormi? Ti riposi, eh? Beato te…”
Così anche io me ne vado.
Ci sono serie probabilità che non rivedrò mai più il signor A, è ovvio, e non sono riuscito a dirgli nulla di tutto questo. Però l’ho scritto. E l’ho fatto per me, è ovvio anche questo. Ma è esattamente questa la ragione per cui tutti scriviamo: questo bellissimo gesto egoistico che qualche volta finisce per dare anche qualcosa agli altri. È una cosa che non accade mica tanto spesso in tutti gli altri fatti della vita.

Un ultimo, prezioso consiglio il signor A me lo ha dato: riprendere la E45 in direzione Terni/Roma per un paio di chilometri, uscire a Casalina e andare a visitare il santuario della Madonna dei Bagni. Sarebbe la chiesa a cui lui, “che nella vita ha fatto davvero poco ma almeno ha viaggiato molto, non ne ha mai vista un’altra similare.”
È un consiglio che nella chiesa di Sant’Antonio ha mormorato quasi per caso, ma si vedeva quanto fosse devoto, quasi commosso, al pensiero.
Riprendo la E45 all’indietro e faccio come dice lui.
Ebbene, ne valeva la pena eccome. (Avevamo dubbi?)
Perché si chiami Madonna dei Bagni non lo so e non ho indagato oltre. Si tratta di una chiesa, di fuori immersa nel verde, le cui superfici interne, e intendo ogni superficie possibile e immaginabile, muri, colonne, navate, sono ricoperte da ex-voto e Per Grazia Ricevuta in ceramica – siamo a due passi da Deruta, del resto – realizzati nell’arco degli ultimi quattro secoli.
È uno spettacolo unico, mistico.
Centinaia di maioliche, lucide e splendenti, cementate nel muro e ordinate a regola d’arte. Fa venire voglia di leggerle tutte una ad una e restare per un po’ in silenzio. Arte e religione in Italia si mescolano sempre, arte e ossessività lo fanno spessissimo in tutto il mondo; ma religione e ossessività… quello è un binomio molto più raro.
Le piastrelle risalenti al 1600 raffigurano per lo più scene contadine: persone miracolosamente scampate alla morte per cadute da cavallo, cadute da alberi su cui stavano raccogliendo la frutta, incornate di buoi, roghi nei campi, solai crollati nelle case o nelle stalle. Le più recenti raffigurano autotreni, automobili ribaltate, incidenti.
Ovunque, attraverso i secoli, maioliche che raffigurano giovani malati e allettati. E tutte presentano la stessa sigla: PGR.
Ci si può credere? Non ci si può credere? Io rispondo: che differenza fa? Il dolore è inutile, ma reale e inevitabile. Eppure si guarisce. La terra sa guarire, e sa guarirci. Sa farlo la bellezza. Sa farlo l’arte. La memoria e la consapevolezza di essere corpo unico – l’umanità – di un unico spirito – il cosmo –, anche loro lo fanno.
Basta fermare quel tempo degli uomini mortali e sintonizzarsi.
© Maurilio Di Stefano, 2018
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