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UMBRIA E MARCHE: GIORNO 3

  • Immagine del redattore: Milo
    Milo
  • 5 set 2018
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 22 nov 2018

Loreto – Recanati


La madonna nera ha il suo fascino. La casa che la circonda anche. La leggenda narra che sia stata portata qui in volo dagli angeli. Non ne ero a conoscenza.

È una bella leggenda. A me ricorda quel vecchio cartone animato, Brisbie e il segreto del Nimh, in cui due corvi volando dovevano trasportare la casa di una famiglia di topini “dal lato sicuro della roccia” per metterla in salvo.

L’ultima volta che sono stato a Loreto avevo diciassette anni ed ero con mio padre.

Continuo a fantasticare di sentire il brusio della folla scemare, come l’effetto dei film, e sentire lui che mi chiama, qui, nella piazza o nella chiesa. Mi guardo persino in giro. Ma lui, ovviamente, non si vede. Ci sono solo i pellegrini.

È giusto così, questa è la storia.

Ma essere scrittori significa anche aver accettato, e imparato ad accettare il peso e le implicazioni, che le cose che ci sono e non si vedono sono molte di più di quelle visibili all’occhio umano. È proprio questo che ci spinge in avanti, sotto certi punti di vista.



L’esperienza con Recanati è a dir poco sconvolgente.

È sempre così per me, ormai, quando metto piede nelle case degli scrittori. Ho preso ad amare questa consuetudine di andare a visitare le loro case natali e i loro luoghi prima di approcciarli sulla pagina scritta.

Sapere che hanno calpestato quei pavimenti o che hanno guardato fuori da quella finestra mi avvicina alle loro parole – o anche alle loro immagini, nel caso in cui si tratti di pittori – per una via tutta diversa, che non avrei mai immaginato di imboccare. La via delle cose, degli oggetti e delle voci antiche rimaste incollate alle superfici delle stanze come impronte digitali sonore.

Chi lo conosceva davvero Giacomo Leopardi? Io no.

È fantastico sentirsi raccontare in questo posto della sua misera statura, della sua memoria eidetica, dei sette anni di studio folle e disperato che attraversò dai quattordici ai ventuno, dell’orto delle suore clarisse in cui andava a passeggiare e meditare in solitudine accedendovi direttamente dal passaggio/scorciatoia che comunicava col suo palazzo di settemila metri quadrati (faceva circa un chilometro a piedi dal portone d’ingresso alla sua stanza, mens sana in corpore sano). Proprio in quell’orto concepì il suo personale infinito, l’illimitato che si nutre solo di se stesso senza il bisogno di azione esterna.

E poi del suicidio di una delle suore che lo colpì e sconvolse nel profondo quando aveva appena tre anni. L’amore per Silvia che non era che una gonfiatura di chi ne voleva fare a tutti i costi un romanticone. E quanto peso, quanta disperazione doveva aver già provato e portato su di sé per scrivere quelle parole a poco più di vent’anni?



Certo, ci fu una concomitanza di fattori esterni e personali che favorì la sua evoluzione di genio precoce. Ma era anche un ossessivo: le righe che tracciava per andare dritto sui taccuini in cui scriveva, la grafia minuziosa, le copertine e le rilegature delle sue prime opere – composte a dodici anni! – realizzate da lui in persona. Una certa forma di genialità anche nella depressione, che anticipava in tutto e per tutto il XX secolo, con le sue turbe psicologiche e trionfo del male di vivere.

Voglio dire, all’epoca ancora più che oggi, avere il tempo e le energie per deprimersi derivava in gran parte anche dalla fortuna di non dover sgobbare per guadagnarsi il pane. Ma questo rende forse la sua sofferenza e il suo sentire meno autentici, meno umani, meno universali? Affatto. Anzi, tutto il contrario.

E allora perché non me lo hanno presentato così quando facevo il liceo classico? Perché invece di un uomo meraviglioso e meravigliosamente complesso mi hanno rifilato un incrocio tra un articolo di cronaca e una cartella clinica? Nacque a Recanati, cagionevole di salute, pessimismo cosmico, natura matrigna, morto giovane. Avanti un altro.

Non vogliono proprio che sentiamo, che ci avviciniamo più di tanto alle cose, o rischiamo di capirle ed amarle per quello che sono davvero.

Io invece oggi ho capito qualcosa di vitale: ancora non ho abbastanza chiari il dolore e la compassione dentro di me. Anche io sono sufficientemente fortunato da essere nato in un’epoca e un contesto comodi e privilegiati, che mi hanno risparmiato gli stenti per procacciarmi il cibo e la salute.

C’è ancora del lavoro da fare, per tentare almeno da lontano di capire e portare su di sé il peso dell’umanità intera, e quasi certamente non ci riuscirò in questa vita.

C’è ancora da camminare, allontanarsi, e soprattutto perdersi.

Ma almeno da oggi avrò dentro di me, ad aiutarmi, anche lui, Giacomo Leopardi, vestito di abiti che non gli avevo mai visto addosso prima d’ora. E di questo ringrazio.


© Maurilio Di Stefano, 2018

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