UMBRIA E MARCHE: GIORNO 4
- Milo
- 6 set 2018
- Tempo di lettura: 4 min
Urbino – Gubbio – Lago Trasimeno
È lo stesso discorso di Recanati, solo che per me è ancora più intenso.
Sapere che questa è la stanza dove Raffaello Sanzio è probabilmente venuto alla luce, che queste sono le porte che ha attraversato e le pareti che ha accarezzato, mi riempie il cuore di una strana gioia folle ed estatica, un’emozione da bambino.
E come potrebbe essere diversamente? Si parla del mio artista preferito. Dell’uomo – quasi un ragazzo – che dipinse tutte quelle bellezze, ma soprattutto quelle madonne, quei bambini e quegli angioletti.
È lo sguardo della tenerezza, il suo. Della Tenerezza con la T maiuscola, come fosse una dea in persona. (Peccato che non ne esista nessuna in nessuna mitologia – non che a me risulti, per lo meno.)
La semplicità sintetizzata, intuita nella sua essenza più pura – più semplice, appunto – e restituita in quelle grosse macchie fruscianti delle vesti sotto forma di colori primari. Una cristallizzazione del prodigio della maternità che non bisogna essere genitori per sentire proprio né religiosi per ammirare e adorare.
Il pittore della dea madre: la vita. Nulla è più stupendamente umano e primordiale di questo.
Quelle sue madonne/donne pallide, serie, stanche, sempre severe, sono il riassunto di tutta la storia della vita di ogni specie: bellezza e amore, rigore e dolore, tenerezza e compassione. Una stupefacente fatica.
Ma soprattutto comprensione. Di ciò che è stata la vita della propria madre e di tutte le madri, di ciò che significa la propria vita e la vita in generale, di ciò che significherà la vita dei propri figli. Come un racconto universale. La genitorialità come impulso divino a creare e ‘generare’ vita.
Che forse in quelle madonne non è neppure più un racconto, neppure più una descrizione, ma solo la condensazione in colori e forme di una profonda devozione, emozione, rispetto. È la traduzione in immagine di un momento che solo chi non smarrisce il bambino in sé è in grado di (ri)vivere: lo stupore.
Cosa deve provare un neonato appena apre gli occhi sul mondo? Nessuno lo ricorda, eppure tutti lo sappiamo. Raffaello, che aveva una marcia in più, lo dipingeva.
Tutto questo penso mentre passeggio nella sua casa natale di Urbino. Tutto questo sento. Tutto questo sono.

Nel Palazzo Ducale di Urbino, sede della Galleria Nazionale delle Marche, ritrovo opere di piccole e medie dimensioni, per lo più di artisti locali sconosciuti ma molto antiche e pregiate, che raffigurano San Francesco d’Assisi mentre riceve le stigmate.
Il centro Italia è la patria del santo, è chiaro, così come l’episodio è da sempre uno dei più rappresentati del racconto della sua vita passato alla storia e da molti dato per vero. Eppure vedere la scena rappresentata in pittura a quel modo non mi era mai capitato prima d’ora. Devo dire che è toccante. E fa riflettere.
Gli artisti variano, ma l’immagine è sempre la stessa: Francesco in terra e Dio/Gesù in cielo, con cinque fili scuri ben visibili che uniscono i due polsi, i due piedi e il costato dell’uno ai due polsi, ai due piedi e al costato dell’altro.
Penso: non c’è, inscritta in quest’immagine, tutta la storia controversa e ambigua del rapporto tra qualsiasi uomo e il qualsiasi (suo) dio di turno in ogni epoca e terra?
Legati da fili. Indissolubilmente. Se uno sente dolore, l’altro sente dolore; stesso discorso per quanto riguarda la gioia. Se uno sta immobile e non prova nulla, un identico destino tocca all’altro. Se uno dei due vuole attirare l’attenzione, allora non ha altri mezzi che tirare un po’ i fili, ma è un sottile delicato equilibrio: tiri troppo e all’altro viene via la pelle fino a scoprire la carne viva, tiri troppo poco e l’altro non sente che un solletico, un prurito che sente il bisogno di scacciare senza darci troppo peso.
E quella lunghezza dei fili che non varia mai: non ci si può avvicinare più di tanto, mai, ma neppure allontanarsi.
L’immagine inquietante ma accurata del punto di incontro tra i gemelli siamesi e un burattinaio con le sue marionette. E chi tira chi, chi guida chi, chi crea chi e dunque ordina all’altro cosa fare e come essere, questo nessuno dei due l’ha ancora capito.
È la storia infinita della relazione tra due amanti difficili. Un desiderio di avvicinamento e possesso che deve essere abbastanza convinto da portare alla conquista ma non così ingombrante da sembrare un’invasione e causare la ritirata dell’altro.
Legati da quei fili a tutti i nostri punti vitali, è così che dovremmo immaginarci con la divinità – qualsiasi sia quella in cui crediamo, persino noi stessi se è tutto ciò su cui facciamo appoggio. Ma comunque paralleli, alla pari, complementari, parti speculari e indissolubili del medesimo sistema quantistico.
Solo allora la mappa si farà meno confusa, e l’estenuante strategia di guerra cederà finalmente il posto a una legittima geografia di pace.

Tornare nuovamente all’Umbria con un pomeriggio speso a Gubbio.
È sempre e comunque la regione del santo dei poveri e degli animali. Il racconto di Francesco è così vivo nella mia mente – cresciuta a pane e cattolicesimo prima che praticassi una silenziosa apostasia per reazione spontanea e contraria – che è impossibile non sentirlo presente anche qui, almeno nella sua forma umana e letteraria, in riva al lago Trasimeno, dove la natura trionfa splendida con la sua personale forma d’arte.
Con questo inatteso tramonto nuvoloso, questo vento fresco e piuttosto insistente che sa di autunno, rivivono quelle parole appartenenti alla poesia più antica che sia stata rinvenuta in questa stessa lingua di questa stessa patria a cui così fortemente appartengo e che così fortemente ho desiderato abbandonare.
Laudato sie, mi' Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole, lo qual è iorno,
et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore,
de te, Altissimo, porta significatione.
Francesco d’Assisi, ‘Cantico delle creature’

Il sole.
Proprio così.
Il dio sole.
Il dio cosmo.
Il dio tutto.
E tutto in queste splendide parole che ho voglia di imparare a memoria.
© Maurilio Di Stefano, 2018
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