UMBRIA E MARCHE: GIORNO 6
- Milo
- 8 set 2018
- Tempo di lettura: 3 min
Spello – Fonti del Clitunno – Eremo delle Allodole – Monte Subasio
Seduto in un bar di Spello a bere caffè corretto con la sambuca come piaceva a mio padre, neanche fossi davvero un vecchio – magari lo sono. A scrivere appunti su questo sgualcito taccuino di viaggio, neanche fossi davvero uno scrittore – magari lo sono.
Spello e la nebbia mattutina e le insegne chiuse del paese fantasma. I campanili delle chiese e i tetti delle case che sbucano fuori come funghi. Come parole. Appunti, mille appunti per altrettanti viaggi, frammenti in ordine sparso.
La pace delle Fonti del Clitunno e i vortici generati dalla terra più profonda. La terra che ha una voce, dunque anche un alito, dunque anche un pianto. Le anatre e i germani reali – ignari. I salici piangenti – ignari. Le piante subacquee – ignare.
Il vapore sulla superficie dell’acqua – dolce, spettrale.

Tutto è immobilità.
Così come lo è su, sulla cima del centro abitato di Pissignano, oltre l’appuntita torre al vertice del castello. Un sentiero cinto da ulivi conduce all’Eremo francescano detto delle Allodole. Un bellissimo nome, una salita percorribile solo a piedi, centinaia e centinaia di ulivi… ma niente eremo.
Proprio così, non ci arrivo. Troppo distante, mancanza di abbigliamento di ricambio per la sudata e di indicazioni sufficienti. Ma quasi è una cosa che mi fa felice, non arrivarci. Vuol dire che l’eremo è riuscito nel suo intento. Meditazione, raccoglimento, isolamento. Non farsi trovare per trovarsi da sé. Ha un senso. C’è così tanta pace nell’assoluto, e un senso tutto suo ha la fuga.

Nell’antica chiesa di Sant’Andrea di Spello, una statua di Madonna sofferente mi colpisce dall’angolo e un’altra sbuca da una nicchia nella parete a rivelare che le mura gotiche, più antiche, ancora riposano dietro, no… dentro quelle più recenti.
Penso: perché invece la Madonna col bambino è sempre serena? Stanca forse, seria, a volte inespressiva, ma sempre irrorata di una certa calma.
È il mistero, mi rispondo, e privilegio e maledizione del peso della grande dea madre che porta in grembo il figlio della divinità e dà la vita al mondo. Essa non è più una donna, forse non lo è mai stata. Bambina, un tempo, poi subito madre e già scomparsa. Per lei la palla d’oro della gioventù è passata di mano in mano tra tutte le sue età in un batter di ciglia. Ridotta ora a un tenue, stupefacente impasto di lacrime, spirito e polvere. Un parto estenuante, quello di tutti i figli dell’umanità.
Ma profumata. Perché lei è vita stessa, latte cosmico. Genera e poi si eclissa, torna parte integrante e indistinguibile della creazione. Una stella impossibile da posizionare o datare, perché appena uno sguardo si posa sulla sua luce, lei subito esplode, dando vita a molecole, atomi, mondi. Disintegrando però se stessa, riducendo a una frazione di secondo il passaggio da anima incarnata a divinità che non ricorda più nulla perché ormai sa tutto.
Dev’essere per questo che mi pare sempre tanto splendida, specie nelle antiche pale d’altare e nei polittici trecenteschi: perché all’epoca, appena prima della nascita del mondo moderno, forse il contatto e la comunicazione con la natura e il tutto erano maggiori; di poco, di tanto, questo non so dirlo, è più che altro una grande sensazione quella che ho.
In fondo tutti i momenti che precedono i grandi cambiamenti sono densi di significato, tanto nella vita dell’universo quanto in quella di ognuno di noi. È solo che non siamo consapevoli, in quei momenti, che si tratta di uno di quei momenti. Come si potrebbe sapere di trovarsi nella fase che precede il cambiamento, quando certe volte non ci si rende conto neppure di quella del cambiamento vero e proprio?
Ma di una cosa sono inspiegabilmente certo: che non ci sia mezzo più adatto della pittura su legno a farsi depositario di un simile messaggio.

© Maurilio Di Stefano, 2018
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