UMBRIA E MARCHE: GIORNO 8
- Milo
- 10 set 2018
- Tempo di lettura: 6 min
Un’occhiata a Spoleto durante il viaggio di ritorno – Conclusioni senza conclusione: da un viaggio non si torna mai
Tornare da un viaggio equivale a non tornare mai, lo sanno tutti. Perché ogni posto e sensazione e profumo restano dentro te anche se non lo sai, e ormai definiscono chi sei insieme a tutto il resto.
E allora fa bene ogni tanto anche raccontare l’Umbria e le Marche in versi sciolti e sparsi e dispersi, simili a tanti occhietti aperti che volano in sciami sulle chiese, sulle piazze, sulle rocche, sul silenzio lacrimoso degli antichi monasteri e sugli affreschi scrostati e dimenticati agli angoli delle strade. Ritagli di muro e angoli di tempo.
Ogni vicolo e ogni dipinto sono diversi quando a osservarli sei tu e non un altro. E tu ti senti diverso quando a osservarti è quel dipinto e non un altro. Tutto è un appuntamento che aspettava da secoli.
Assomiglia a quell’affascinante idea per cui la geografia di un posto, la pianta di una città, per dire Roma, è diversa per ogni romano (e non) che la abita la vive la percorre e la ritrae. Perché diverso è l’occhio e diversa è la serie di luoghi, abituali o dove si capita per caso, che riempiono i vuoti nella mappa del vissuto. Diverse le emozioni e le conseguenze. Diversa la conoscenza. Nella mia mappa mentale dell’Italia per esempio non esiste Grosseto, perché non ci ho mai messo piede, ma scommetto che per molti altri non è così.
Quel che segue è il mio viaggio, la mia Umbria, le mie Marche, posti diversi dagli stessi posti di chiunque altro e dai quali mai tornerò.
Monasteri e abbazie e conventi, se ci ripenso guardando le foto, che sorgono tra i verdi boschi come tanti funghi, funghi troppo cresciuti, funghi isolati di silenzio e, spero, qualche buona intenzione.
Una terra dove la natura terrestre ha sposato la liturgia del trascendente e ne sono nate case di roccia e colori. Muri e chiostri, pozzi, immersi in un Medioevo che non è mai finito. Le passeggiate e la lettura, un andare in pensione come obiettivo di vita.
Tutto è sempre in discesa o in salita, guarda Urbino: tutte quelle colline aiutano il pensiero a scavallare. La neve renderà tutto molto complicato, d’inverno, le strade e i vicoli si trasformeranno in fiumi da navigare con le piogge più violente.
Non conta il nome del posto né la sua ubicazione: ovunque pietre ordinate, e pulite, e Madonne vestite di blu, e pulite, a ogni angolo. Al di là di balconcini o edicole che la gente, non solo quella del posto, oltrepassa senza guardare. E pensare che sono anche gratuiti.
Ieratici volti di Marie di prima della Scoperta del Nuovo Mondo sorvegliano placidamente le ZTL, i parcheggi a pagamento e i divieti di sosta. Tutto risuona e i livelli del tempo si mescolano nel mosaico urbano.
Ogni lato della città ha mura e porte, una volta si passavano le giornate a costruirne, vite intere spese a difendersi, chissà se oggi le cose sono davvero cambiate.
Ogni angolo trasuda spiritualità cattolica eppure l’arte non ha bandiera; ogni angolo esala cristianità eppure colonne, portali e frontoni sono ricolmi di simboli e decorazioni abbastanza antichi da potersi definire anacronistici. Una strana alchimia che si riesce a respirare e fa girare la testa come una vernice.
Ci rifletti un po’ su, è inevitabile che tu lo faccia, e realizzi che davvero tutto è scritto con un’unica lingua, è solo che esistono tante pronunce quanti sono i poteri.

I campanili e gli orologi svettano come sentinelle neutrali, a loro interessa solo il tempo, che sia degli uomini o degli dei non ha importanza, meglio ancora se fermo. Le loro torri e le loro cuspidi hanno imparato da molto che la vera moneta non è il denaro. Il denaro è un soldo che si può spendere, il tempo uno che si può vivere.
Tutto all’esterno è scrostato, scolorito dalle intemperie, e manca di qualche pezzo a macchia di leopardo, ma si intravede benissimo, come nei racconti di un vecchio in un momento di acuta lucidità, il colore di una volta, come doveva essere acceso appena steso, e che meraviglia doveva destare, e che sensazione si dovesse provare al passaggio in queste strade, ricolme di pittura, quasi al pari dei templi greci e romani.
Tutto all’interno è conservato benissimo e restaurato a dovere e qualsiasi sia il prezzo del biglietto quel viso di madonna del Pinturicchio vale il doppio del doppio del biglietto, una cifra che nessuno ha avuto il coraggio di stabilire perché sarebbe stata troppo alta se tradotta in Euro.
Tra le strutture delle case si intravedono le fondamenta secolari di antichi edifici, sui quali si è costruito come figli che si appoggiano ai padri e poi viceversa.
Ovunque, non c’è da stupirsi, crocifissi. C’è invece da stupirsi sul perché, di un racconto così ricco e complesso come quello dei vangeli, abbiano scelto proprio quell’immagine straziata come condensazione di tutto quello che c’è e può esserci intorno.
C’è da meravigliarsi che quel Gesù di Nazareth e la sua storia come ci è stata tramandata abbiano fatto tanta presa sulla gente? Il peccato originale sarà anche mera invenzione teologica, ma la colpa? Colpa e peccato sono ben diversi, ma la prima un po’ tutti se la sentono addosso, diciamo se non per se stessi per le atrocità commesse da qualsiasi altro uomo in ogni posto del mondo ai danni di altri uomini. E basterebbe questa scomoda sensazione alla base della nuca a farci capire quanto siamo tutti colori dello stesso affresco.
Vecchi con la barba, libri e clessidre ad ogni muro un po’ nascosto di chiesa, vanità barocca che ci ricorda che polvere siamo – di stelle, ma sempre polvere – ed è questo che ci rende speciali. Una vita immortale sarebbe la peggiore delle morti, e forse tutta quest’arte neppure esisterebbe, convinti come saremmo che tempo per crearne ce ne fosse a dismisura.
Padreterni e figure cristiche a non finire, ma spesso circondati dai raggi del sole come un Horus o un Mithra che hanno preferito adeguarsi alle nuove esigenze religiose più che passare di moda. Comunque insistono a ricordare che il sole è tutto e senza non esisterem(m)o. Proprio lì, nel sole, sta il vero nodo e unico punto d’incontro tra scienza, religioni e miti.
Per almeno ogni madonna con bambino c’è un teschio con tibie incrociate, eppure non si disturbano a vicenda e convivono in totale armonia da quando la vita esiste.
Ancora colore a profusione nelle vetrate gotiche che, come gli occhi con l’anima, diventano belle soltanto quando il giorno le illumina dal retro.
Si palpa la dichiarata intenzione di non lasciare mai neppure un angolino vuoto, e l’oro sembra lo sfondo prediletto per mettere a tacere tutto quell’horror vacui.

In ogni chiesa le figure dei quattro evangelisti, a richiamare l’imperdonabile asimmetria dell’uomo e delle stelle: quattro evangelisti ma uno solo accompagnato da un angelo mentre gli altri da animali; quattro vangeli ma uno è strutturato diversamente; quattro punti cardinali ma uno non vede il sole ed è proprio quello che attira gli aghi delle bussole; dodici costellazioni nello zodiaco ma una è costituita da un oggetto inanimato e una tredicesima è stata fatta fuori forse ingiustamente; un anno su quattro soltanto è bisestile; un mese su dodici è così corto; un uomo su troppi ha da mangiare d’avanzo…
Si potrebbe andare avanti per pagine e pagine.
E possiamo allora davvero meravigliarci quando sentiamo che la stessa madre tratta uno dei quattro figli in modo completamente diverso dagli altri? Tutto intorno a noi si comporta così, o così siamo abituati a pensare.
Se l’oro è il colore prediletto per gli sfondi, il rosso lo è per i primi piani, perché con tutte quelle passioni e crocifissioni non mancano chiodi, spine, tenaglie e rivoli di sangue che incappucciano teschi ghignanti: è una religione che non ha mai fatto finta che il dolore non esistesse o che il macabro non costituisse parte essenziale del fascino umano, ecco un altro dei suoi punti di forza che tante altre non hanno.
Ovunque cagnolini, conchiglie e indici di mani destre o sinistre che indicano sempre punti celati nel cielo o nel suolo dove resta nascosto, in attesa, qualcosa di cui verosimilmente non sapremo mai.
Per lo meno non in questa vita, e di certo non io.
Ecco perché è giunta l’ora di mettere un punto alle parole.
Ma non al viaggio.
Da un viaggio non si torna mai.
Così come non si smette mai di nascere.
È la creazione del creato che non conosce arresto di se stessa.
Noi passiamo solo qualche decennio, nel migliore dei casi, ad osservare, stupircene e dare a qualcosa qualche nome che suoni bene.

© Maurilio Di Stefano, 2018
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