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UN GIRO IN SICILIA: PRIMO GIORNO

  • Immagine del redattore: Milo
    Milo
  • 29 lug 2017
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 16 nov 2018

Giorno 1

ALTRA LINGUA, ALTRO PROFUMO


Vorrebbe in qualche modo essere simile a quella cosa che fa Dino Campana nei Canti Orfici riguardo al suo viaggio in Toscana. Un diario giornaliero ragionato che a tratti indulge alla poesia, io lo definirei così. E lo farò a modo mio, è chiaro. Come so e come posso.

Come un viaggio che parte dalla costa, disegna il perimetro dell’isola e va a finire nel suo cuore pulsante e ardente di lava.

Come un viaggio di quest’essere galleggiante a tre punte, la Sicilia, che parte dalla pelle, attraversa i tessuti e va a perdersi nel sangue.

Un percorso a spirale che secondo la sezione aurea si addentra sempre più nell’intimo del cosmo lungo il cammino della conoscenza del corpo di dio.

“Allontaniamoci verso il centro dell’universo.” Questo scriveva Mogol per Lucio Battisti in ‘Abbracciala, abbracciali, abbracciati’.

Ho sempre pensato che quell’ossimoro logico, allontanarsi verso il centro, contenesse tutto. Quell’ossimoro è la sintesi e l’essenza stessa di ogni viaggio.

Un viaggio che in questo caso ha inizio a Palermo dopo l’atterraggio a Punta Raisi nel caldo devastante di fine luglio di un anno così duro e secco che i cruscotti delle auto segnano temperature come 49 e 51 e tutta l’Italia è divorata da incendi.

Ma la città è ugualmente meravigliosa e splende tutta di sole, fontane e passanti che attraversano con disinvoltura ogni suo strato muovendosi da una civiltà all’altra come viaggiatori del tempo ormai esperti.

Io che sono di Roma non li ho mai sentiti i Normanni così vicini alla pelle. Io che sono di Roma non sono abituato ai corpi africani negli affreschi, o ai cristi su sfondo d’oro in tutte le chiese. Per me Costantinopoli è per lo più una parola che da piccoli ripetevamo all’interno di uno scioglilingua.

Io che sono di Roma e non ho ancora mai messo piede a Ravenna – ma è sulla lista delle prossime mete – per ‘mosaico’ sottintendo sempre romano, non bizantino. Io che sono di Roma, che ho fatto il liceo classico e sono cresciuto all’ombra dell’enclave vaticana la cui lingua ufficiale è il Latino, mi stupisco come un bambinetto nel trovare tutte quelle frasi in Greco antico accanto ai santi immortalati sulle colonne o sulle volte.

Bifore ovunque, come occhi spalancati su di te, perché è te che aspettavano da secoli e il tuo essere qui oggi è sempre stato inevitabile. Fichi d’India ovunque su sfondo di mura bianche e antiche. Anzi, facciamo fichidindia, tuttattaccato: se lo scriveva così Quasimodo, che era Nobel e soprattutto un indigeno, allora è di sicuro corretto.

Dappertutto il tempo fermo utile alla riflessione che è tipico di tutte le isole, calde o gelide che siano. Qui però misto all’immobilità e all’appagata pigrizia genetiche del Mediterraneo.

La vegetazione parla una lingua che non è l’Italiano, il caldo profuma, l’aria sa di Africa. Tutto sembra bloccato a mezzogiorno, muoversi solamente da e verso Sud. Non è una sensazione della pelle né uno stile di vita ma più che altro uno stato mentale, una disposizione dell’anima. Mi accorgo che ne sto parlando con il terzo occhio e non con i due principali, ma per quelli ogni guida turistica ne sa molto più di me.

I ficus, smisurati guardiani a custodire la città, incutono quasi timore, di sicuro rispetto. È come se qui l’era dei giganti che camminavano sulla terra non si fosse ancora conclusa del tutto.

Impressione accentuata dal grande vulcano che, sì, è a Catania e non qui, ma lascia percepire la sua presenza ovunque. Eccome. Un signore di fuoco che getta il suo occhio sempre attento su ogni angolo di questa terra di bellezza.



© Maurilio Di Stefano, 2017

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