UN GIRO IN SICILIA: GIORNO 11
- Milo
- 8 ago 2017
- Tempo di lettura: 2 min
Giorno 11
ANCORA DAL LIBRO DELL’INQUIETUDINE
Nelle gole dell’Alcantara la natura ha fatto davvero del suo meglio. Il tocco, i colori e le pennellate non hanno proprio nulla da invidiare a quelli di Yellowstone e del Grand Canyon che i documentari televisivi ripropongono di continuo.
È un luogo ideale per poggiare un po’ le mani a terra, abbandonare il taccuino nella tasca e sognare di essere pittore per un giorno e avere il privilegio di poter almeno tentare di ritrarre questo splendore.
Un posto dove il taccuino torna di nuovo utile è invece il convento dei Cappuccini poco distante. Niente scheletri e ossa stavolta, ma è pur sempre di Cappuccini che parliamo: qualcosa di bislacco, tanto per usare un eufemismo, è sempre bene aspettarselo.
E infatti eccolo. Qui il bisogno di generare inquietudine – sarà per esorcizzarla, ci mancherebbe – è soddisfatto da una sfilza di manichini in pose umane dislocati ovunque nella struttura e impegnati a riposare sui letti delle celle, a preparare i pasti nelle cucine, a trascrivere qualche antico libro seduti ai loro scrittoi.
Non è difficile per la mia solita fantasia distorta immaginarli animarsi durante la notte, riprendere le loro faccende e i loro compiti, e chiacchierare e ridere alle spalle degli stupidi umani per cui di giorno fingono di essere semplici fantocci privi di vita.
Ma la quiete immobile e silenziosa suscita pensieri molto più pericolosi di questo. Il più tagliente e affilato fra tutti, per uno come me, è: ma una vita del genere, dedicata interamente al lavoro, allo studio e alla meditazione, in totale isolamento e ritiro, sarebbe poi tanto male? Anzi, rettifico: sarebbe poi tanto sprecata?
Va da sé che la risposta non è una di quelle che si trovano all’istante.
Il convento è ormai disabitato – a parte i manichini intendo. Le stanze vuote e le vecchie sculture lignee sono pulite e ben tenute, ma lo stesso le ricopre la sottile patina malinconica tipica dell’abbandono. Capita lo stesso al cuore umano, se resta troppo a lungo inutilizzato.
Quanto a noi altri, invece: quanto a lungo sapremmo resistere in silenzio? Quanto della nostra moderna paura della solitudine è in realtà paura di venire a patti con se stessi? Quanto a fondo siamo in grado di spingerci prima che l’immane voce interiore ci terrorizzi?
Quanto siamo disposti a mettere in gioco per scoprire chi veramente abita dentro al nostro petto?
© Maurilio Di Stefano, 2017
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