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UN GIRO IN SICILIA: GIORNO 2

  • Immagine del redattore: Milo
    Milo
  • 30 lug 2017
  • Tempo di lettura: 5 min

Giorno 2

LA SFILATA DELLA MORTE


Un’esposizione non preventivata contenuta nel Palazzo dei Normanni è un modo meraviglioso di iniziare la giornata. Trovarsi davanti la colorata parete con la Vucciria di Guttuso, in persona e proprio in questa città, dà i brividi.

Ancora oro. Oro ovunque. Io che sono di Roma “ho” la Cappella Sistina, ma la bellezza di questa Cappella Palatina non è certo da meno. Un duomo di Monreale in miniatura, perfettamente messo a fuoco, gioiello splendente e splendidamente conservato nelle fresche ombre della pietra del palazzo.

La struttura squadrata della Zisa dà invece l’idea di entrare in una versione ante litteram del cubo di quel film di fantascienza del ’97 che ha ossessionato migliaia di spettatori. È un’esperienza surreale, quasi fantascientifica, e direi necessaria. Di stanza in stanza, di piano in piano, mi sembra davvero di avanzare attraverso i livelli di un videogioco. Solo reale. E davvero molto più affascinante.

Falcone e Borsellino se la ridono per l’eternità con i visi belli e puliti a dimensione condominiale, ma la storia che racconta la facciata di quel palazzo non fa sorridere noi, che non possiamo fare altro che prenderne atto.

Ma quello che è davvero sconcertante è il passaggio definitivo in una dimensione parallela. O forse passata e futura allo stesso tempo.

Mi spiego.

Io che sono di Roma “ho” la Cappella dei Cappuccini di Via Veneto, certo. Un esempio più unico che raro, o così pensavo, della capacità della fantasia umana di superare i propri stessi limiti.

"Noi eravamo quello che voi siete, e quello che noi siamo voi sarete." Questo c’è scritto a Roma. E lì il trucco sta nell’ubicazione: Via Veneto, il cuore della dolce vita, che però nasconde quel nocciolo d’ombra come un macabro promemoria, un complesso monumentale che include chiesa e museo ma dove tutti vanno senza dubbio per le ossa che decorano le stanze dai nomi bizzarri – cripta della resurrezione, cripta delle tibie e dei femori, e così via.

Ma qui a Palermo le superano tutte. Qui c’è un Cimitero intero, dei Cappuccini. Ora, per come la vedo io la differenza tra la Cappella di Roma e questo posto è la stessa che passa tra avere un acquario di piranha in salotto e farsi una nuotata in mezzo agli squali al largo del Pacifico.

Si scendono delle scale, si abbassano le voci, la cripta e la terra mi accolgono nei loro cuori imbalsamati. Il sole preferisce restare fuori, e così la calura. Quindi si piomba in un non-posto non-tempo che l’immaginazione non sarebbe arrivata a partorire meglio di come la realtà l’ha fatto.

Le foto sono vietate, così la mia testa non fa che riempirsi di parole, che poi dimenticherò perché ciò che ho davanti agli occhi supera ogni letteratura.

La prima cosa che mi viene in mente, visto che ho il problema di un pensiero a-lineare che deraglia di continuo, è una frase che il direttore della prigione dice a Clint Eastwood in ‘Fuga da Alcatraz’: “Se si infrangono le regole della società si va in prigione, se si infrangono le regole della prigione ti mandano da noi.”

All’inizio neppure io so cosa c’entra un’isola carcere-fortezza nella baia di San Francisco con la Cappella dei Cappuccini di Palermo. Ma la mente, che è sempre un passo avanti a noi, mi spiega: la morte è ciò che c’è dopo la vita, quello che ho davanti agli occhi in questo momento è ciò che c’è dopo la morte.

Scheletri, tanti. Ossa, tantissime. Ma traslati alla dimensione della pinacoteca, della fiera espositiva. E a proposito di fiera: mi sento di dire che qui la vanitas ha trovato pane per i suoi denti, altro che i dipinti seicenteschi…

Vestiti, adorni, appesi ai muri, sdraiati, ricurvi, impegnati ognuno in qualcosa, gli scheletri sembrano quasi un album di figurine al completo.

E i teschi, idem. Non avevo mai saputo prima d’ora che un teschio può avere così tante espressioni ‘facciali’. Sono io che le voglio vedere oppure le hanno davvero? A seconda dell’inclinazione della mandibola o dello stato di conservazione degli zigomi riesco a distinguere: stupore, perplessità, paura, indifferenza, noia, divertimento, derisione, insofferenza, compassione, dubbio.

Dubbio…

Se Amleto aveva quel dubbio atroce con un solo teschio in mano, mi chiedo qui cosa gli sarebbe venuto da pensare.

La rivelazione è potente, disturbante. L’oltre, lo stadio dopo la morte, al di là della decomposizione. Un teschio non è una persona, andiamo: è una cosa. Un oggetto. Un arredo, ecco. E come ogni ossario anche questo fa riflettere su come saremo nel futuro remoto, un tempo così impensabile che non esiste neppure nelle coniugazioni verbali.

La morte è una Livella e ci rende tutti uguali. Ma quello che c’è oltre la morte ci rende tutti nessuno.

Sfilare tra le corsie di scheletri adagiati con cura nelle nicchie e vestiti ora da frati, ora da lavoratori dei diversi mestieri, ora da decomposizione e basta, è come camminare sul suolo di un pianeta alieno.

Uno strano prurito mi coglie alla nuca. All’inizio non capisco cosa sia, subito dopo riesco a dargli un nome. Non è la classica sensazione di essere osservato, no; quello è solo uno stereotipo da film. Più che altro è l’improvvisa consapevolezza di stare sfilando per loro, come per esserne esaminato e giudicato.

Sono loro, i morti, il popolo dei più, ad aver pagato tre miseri Euro di biglietto per guardarmi affascinati, curiosi. Non sono loro esposti per me, sono io l’intruso nella loro terra.

Ne consegue un’inattesa – e del tutto logica, per come la vedo io – smania di fare buona impressione. In fondo, da quel poco che so, è il loro il posto a cui anche io giungerò.

Quando infine arrivo davanti al celebre, così dicono, corpicino della ragazzina miracolosamente conservato intatto nonostante sia morta da decenni, sempre così dicono, comincio a pensare che qualcosa qui dentro sia tremendamente sbagliato. Ma solo qualcosa. Soprattutto se come me sei uno scrittore con il fascino per il gotico, l’horror e un rapporto stretto – perché buono mi sembra un aggettivo un po’ inappropriato – con la morte.

Infatti non posso proprio fare a meno di immaginare come sarebbe passare una notte qui dentro, a scrivere, chiuso da solo in mezzo a ‘loro’, magari a lume di candela. Il fatto che lo immagini non significa che lo farei, ma di sicuro spendo qualche minuto a pensarci. Ci voleva qui quel gran genio del mio migliore amico, con cui ci divertiamo sempre con quel gioco infantile del “Ma tu quanto vorresti per…?”

Tornare alla luce salendo la scala somiglia più a un’esumazione che a una resurrezione. Ma anche se di Palermo avevo dimenticato persino l’esistenza, il corpo si riabitua in fretta al mondo esterno – quello dei vivi. Quanto alla mente, lei impiega un po’ di più. Molto di più. Una piccola parte è ancora adesso là sotto, nella cripta del Cimitero dei Cappuccini.

La sensazione è quella di aver lasciato indietro qualcosa, senza necessariamente averlo perso però. E di aver ottenuto qualcos’altro in cambio, senza necessariamente saper spiegare cosa sia.

È una visita che consiglierei? Be’, certo, dipende da che tipo di persone siete. Ma credo che la risposta più pertinente a questa domanda sia quello che disse una volta Anthony Kiedis, il cantante dei Red Hot Chili Peppers, riguardo alla droga: “Non la consiglierei mai, ma mentirei se dicessi che non ha contribuito a rendermi esattamente ciò che sono oggi.” O qualcosa del genere.



© Maurilio Di Stefano, 2017

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