UN GIRO IN SICILIA: GIORNO 8
- Milo
- 5 ago 2017
- Tempo di lettura: 3 min
Giorno 8
I GRAFFI DEL POETA
Ragusa è ancora più giù e ancora più indietro nel tempo. Lo raccontano con chiarezza ogni piazza, ogni casa, ogni chiesa e giardino; soprattutto dal lato di Ibla.
Suppongo sia inevitabile nel Sud più profondo di un’isola che i più stretti contatti con il cosiddetto continente li ha dal lato opposto.
Non sembra neppure una città, quanto piuttosto un bellissimo paese arroccato. Direi quasi appenninico, se non fosse che fa così caldo che percorrere i vicoli in salita o in discesa non fa praticamente differenza.
Maschere apotropaiche e gargolle in pietra ad ogni angolo, i visi contratti in smorfie orripilanti: è difficile immaginare una strega o un demone avvicinarsi a queste chiese a meno di avere davvero fegato.
Secoli fa si spendeva molto tempo a decorare e ritoccare fino all’ultimo centimetro, persino negli angoli che nessuno avrebbe visto. C’erano un’accuratezza e un amore (uno dei cui sinonimi è proprio ‘prendersi cura’), per i dettagli e le piccole cose che oggi sono andati persi quasi del tutto. Oggi siamo in troppi al mondo per questo, suppongo. Per questo c’è del bello e dell’utile nelle vestigia di epoche in cui si era di meno, l’arte non era firmata da nessuno e proprio perché anonima nasceva già immortale, di sicuro universale.
È molto più difficile infangare un oggetto di provenienza anonima, perché non si può sfruttarlo per infangare il nome del suo autore, artigiano o artefice. Questa è una cosa che aiuta di molto le buone cose a restare buone anche se chi le ha fatte smarrisce la strada più avanti. Sapere che una tua creatura, arte o figlio che sia, non sarà mai usata contro di te: che bella sicurezza deve essere… Ma chi ce l’ha? Neppure dio. Anzi, lui meno di chiunque altro.
Quanto a Modica, Modica è un villaggio fiabesco in cui gnomi e piccole creature fatate del bosco preparano gustoso cioccolato in case scavate nei sassi. Lo annuncia anche un cartello sulla via principale: “Salvate la terra: è l’unico pianeta con la cioccolata.”
È quasi una pura casualità scovare tra le viuzze la casa dove Salvatore Quasimodo, altro illustre e meritatissimo Nobel siculo (ed ‘èsule involontario’, come recita la targa sul muro), nacque il 20 agosto 1901.
Visitarla è un brivido non da poco.
Lo scrittoio, gli effetti personali del poeta, la sua macchina da scrivere, tutto è rivestito dalla patina delicata del rispetto e della venerazione che si provano per la grandezza intellettuale. È l’emozione che generano i luoghi, gli oggetti, a volte i semplici soprammobili, che è in grado di superare quella delle persone e anche della poesia stessa.
Si possono ascoltare delle vecchie incisioni in cui Quasimodo legge delle sue poesie di persona.
A livello superficiale e un po’ infantile, lì per lì penso: dio, sembra stia declamando un rituale satanico; no, le parole di un esorcismo, ecco.
Un po’ più giù nella mente poi mi dico: beato lui che ci riesce, lo ammiro, io scrivo per scordarmi subito dopo di tutto quello che butto fuori, io scrivo PROPRIO per non dover parlare, e non credo sarei mai in grado di leggere le mie poesie ad alta voce, se pure me lo chiedessero.
Infine, dentro al petto, al fondo delle viscere, la mia vera voce interiore – che per fortuna se ne frega di tutte le mie frasi che cominciano per “io” – ritorna al mio primo pensiero e mi invita a soffermarmi un po’ più a lungo su quella voce cantilenante e un bel po’ nasale.
È la voce di Quasimodo. Ascoltala, dannazione. È a te che parla, almeno in questo momento, anche se lui è morto e tu fino a stamattina non ripensavi a lui dai tempi del liceo. Lasciati guidare dal ritmo del suono, dal passo del metro e dall’intonazione delle sue personali corde vocali…
Ecco, così.
Bravo.
Lo senti, ora? Lo capisci? La poesia deve graffiare, schiaffeggiare, farti sentire nudo, indifeso, sporco, sbagliato, colpevole. Deve farti cambiare posizione sulla sedia e obbligarti a grattare il prurito insopportabile provocato da tutta quella pelle umana che ti porti dietro e che vigliaccamente ogni volta usi per nasconderti.
Ti pare di sentire l’ombra, l’oscurità, il diavolo in quella voce? E allora vuol dire che ci siamo, che va bene, che sei forse sulla strada giusta e che di sicuro c’era Quasimodo.
Che poesia vuoi mai scrivere che abbia un senso per te, un’utilità per il mondo e anche solo un bruscolo di potere curativo se non vai a rimestare nel torbido della malinconia, della disperazione e della mancanza?
…
E ora che hai imparato la lezione fila via, fuori di qui!
Ad assaggiare birra e liquori al cioccolato, forza!
A dimenticare, come si dice in gergo umano, che è solo un altro modo per dire di lasciare tempo alle parole giuste e ai sentimenti forti di depositarsi e sedimentare giù nell’anima perché un giorno ne nascano bambini.
© Maurilio Di Stefano, 2017
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