VENEZIA, LA LUNA E TU (1)
- Milo
- 30 apr 2018
- Tempo di lettura: 5 min
Venezia, la luna e tu, proprio come nel titolo di quel vecchio film di Dino Risi con Albero Sordi e Nino Manfredi. Perché guardi la luna, la cerchi riflessa nella laguna, e ci ritrovi, sorpreso, il tuo viso.

Devo ammettere che arrivarci in treno è strano. Uno la immagina sempre in vaporetto, in gondola o qualcosa di simile. Poi però ti lasci la stazione alle spalle e in un minuto ti dimentichi del mondo così come lo conosci.
Ti dimentichi della terraferma, eppure il mare non lo prendi mai.
Ecco come il trucco di Venezia ti si comincia a svelare: è un limbo. È terra ma non è terra. Mare, ma non è mare. Un’isola, ma non esattamente. È Italia, ma non proprio. Eccetera.
E io, che per trent’anni ho ascoltato le musiche del Rondò Veneziano, mi rendo conto ora di quanto siano perfette. Non tanto come colonna sonora di questo posto quanto sua evocazione ed emanazione. Quei violini e quegli oboi sono la tavoletta Ouija personale di Venezia, corsia preferenziale per suscitarla con chiarezza impeccabile anche quando sei lontano, proprio come i reel per l’Irlanda, le bagpipes per la Scozia, il jazz per New Orleans e i Red Hot Chili Peppers per Los Angeles.
Il sontuoso arredo barocco e l’horror vacui mi sopraffanno sin dalle prime chiese senza nome in cui metto piede. Ma è un assalto gradevole: anche a me è sempre piaciuto riempire i vuoti, dev’essere per quello che i cruciverba mi rilassano così tanto.
I rii, le calli, le gondole, è vero che sono un tantino meno emozionanti di quanto meritino perché ormai inflazionati, ma è bello che siano finalmente una cosa concreta e non una cartolina.
Poi, subito, l’esplosione di simboli e paganesimo della Basilica dei Frari. È bellissima.
Dunque al di là e al di sotto di quella piramide riposano le spoglie di Antonio Canova? No, solo il cuore. E questo è strano e meraviglioso. Nessuno potrà mai dire “Ho lasciato il mio cuore a Venezia” ed essere sincero quanto lui.
La tomba piramidale fu scolpita dai suoi allievi. Non oso immaginare l’onore e l’emozione, ma io non la vorrei mai una simile incombenza. Sarebbe come ritrovarsi a musicare il requiem per Beethoven o a scrivere una poesia per l’elogio funebre di Neruda o una tragedia sulla vita di Shakespeare. Non si può. Non si fa e basta.
Qui tutta la pietra è molle, il marmo è tessuto, e fruscia. Si è andati persino oltre l’alchimia. Invece del piombo in oro si è trasformata la roccia in seta.

Ritrovarsi in Piazza San Marco quasi per caso. Il gigantesco campanile, i quattro cavalli, i Mori che battono uno le ore un po’ in anticipo e uno un po’ in ritardo – a rappresentare il passato e il futuro, solo che secondo me è il ritardo il passato e l’anticipo il futuro. Tutto al riflettersi della luce sulle dorature bizantine.
Rosso e oro. Ovunque rosso e oro. E quattro dappertutto. Quattro cavalli, quattro cavalieri dell’Apocalisse, i quattro evangelisti a ogni angolo. Pare da queste parti si prediliga quello che aveva accanto a sé un leone.
Viene naturale figurarsi la piazza inondata d’acqua; così come quando sarà inondata verrà naturale immaginarla asciutta e assolata come oggi, credo. Deve esserci un gene umano, che tutti senza esclusione possediamo, che genera un fascino innato per la mancanza, che spinge la mente a pensare le cose solo per come NON sono nel momento in cui le si osserva. Dev’essere lo stesso gene che è alla radice di tutta l’arte e tutta la malinconia della nostra specie.
Scoprire che la cattedrale sorge leggermente di sbieco rispetto alla piazza mi solleva. Dalle foto viste fino ad oggi non lo avevo mai notato, o forse non lo ricordavo. Trovo questa piccola asimmetria confortante: ricorda che la perfezione non esiste e se esiste non è quello che intendiamo noi.
Così come venire a sapere che il campanile, questo, è stato ricostruito “come era, dove era” nel 1912 in seguito a uno spaventoso crollo mi ricorda che nulla è eterno, nemmeno quello che diamo per scontato. Nessuno ha la certezza matematica che domani il Colosseo e le Piramidi d’Egitto saranno ancora lì dove sono sempre stati. E preso atto di questo la vita acquista un sapore molto più denso e un senso molto più alto.
Ma la cosa mi fa capire anche qualcos’altro, qualcosa di molto più sotterraneo e infido. Cioè che “come era, dove era” produce un risultato identico a ciò che era ma non è ciò che era. Giusto? Così, un promemoria che mi sento di annotare a margine della mente perché potrebbe sempre tornare utile a smascherare qualche inganno – e non parlo certo del campanile.

Attenti a non cadere in errore come fanno tutti, perché il Ponte dei Sospiri si chiama così per i sospiri dei carcerati e non per quelli degli innamorati. Be’, però, dico allora io, non è che tra le due categorie ci siano poi tutte queste grandi differenze, e se non è un sospiro d’amore quello di chi pensa alla libertà che non ha più allora quale sospiro lo è…
I piccioni, icona della città molto più delle gondole e dei canali, la fanno da padroni tra i vicoli dei sei sestieri e la loro complicata geografia; mentre le persone, e non dico solo i turisti, faticano a orientarsi in un dedalo intricato di ombre e folla dove i numeri civici degli edifici seguono uno schema tutto loro che non si resetta di calle in calle.
La laguna fluttua placida. Era lì da prima e sarà lì ancora dopo l’uomo. Non le interessano i merletti, non le interessano i suicidi o i morti d’amore, non le interessano le case dai colori sgargianti addossate l’una all’altra come grosse caramelle addormentate, non le interessano le fornaci ardenti dove i lavoratori del vetro sudano per riprodurre in serie sempre la stessa bellezza con la maestria affinata attraverso le generazioni.
La laguna è la natura stessa. La natura, sorprendentemente, non è Murano né Burano, ma è Torcello, quella delle tre di cui si racconta di meno, forse perché a questo mondo parlare del silenzio è difficile e scomodo lo è della pace.
La vegetazione calma nel vento lento, le piante acquatiche come uno shampoo di capelli lisci e verdi, gli insetti sonnolenti. La quiete è interrotta solo dal suono salato e crocchiante delle corde che tengono le barche legate ai moli. Una vecchia chiesa riposa dimenticata nel cuore dell’isola in fondo al centro abitato.
Ecco come sarà la terra dopo, dico, poco dopo il nostro passaggio umano: ricolma delle nostre cose, che ancora producono suoni e danni e rugginose reazioni chimiche, ma splendida e desolata, forse l’unico modo in cui uomo e terra possono fare veramente la pace, lasciando che l’una divori l’altro una volta e per sempre.

Torri campanarie pendenti salutano il tramonto sulla laguna così come lo facevano quando i passi mossi qui attorno erano quelli di Ruskin o Goethe. Sembrano voler crollare da un momento all’altro, e il loro fascino sta proprio in quell’eterna promessa mai mantenuta.
Sembrano voler crollare da un momento all’altro, ti verrebbe da dire ai vecchi del posto. Finché stanno su non crollano, ti sembra di sentirli rispondere con un’alzata di spalle senza neppure realizzare l’ovvietà sconcertante e per questo paradossale della loro affermazione. Dopo puoi quasi vederli proseguire per la loro strada come antichi spettri di uomini annegati in queste acque, che ti lasciano lì a chiederti se stessero parlando delle torri campanarie o di se stessi, e a realizzare che in quella ovvietà c’è più verità su questa vita di quanta ne coglierai mai e molta più di quanta te ne serva davvero.
© Maurilio Di Stefano, 2018
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