VENEZIA, LA LUNA E TU (2)
- Milo
- 1 mag 2018
- Tempo di lettura: 3 min
Venezia è una di quelle città in cui in assoluto passeggiare di notte fa meno impressione e meno differenza rispetto al giorno.
È vero, le pietre si avvicinano a te, ti parlano, i dogi e gli antichi amori e i ponti i pittori e i banditi sfiorano il tuo viso così da vicino che quasi temi per la tua vita, e devi appoggiarti a uno dei tanti pozzi, fortuna che li hanno chiusi, per non svenire e non cadere in acqua.
Ma se una volta che ti sei ripreso ascolterai bene, vedrai che imparerai presto la voce della vecchia città, e scoprirai che non ti sta minacciando. Tutto ciò che desidera è raccontare, poiché tutto ciò che è fatto d’acqua ha il dono congenito della fluidità e della limpidezza ma è anche condannato alla maledizione di dover cambiare ogni istante assetto e assumere la forma dei confini che di volta in volta lo contengono.
“Poiché la mia vita medesima è una commedia.”
Così diceva Goldoni.
Una commedia, proprio così. Una commedia che ha del divino, come aveva suggerito già un fiorentino prima di lui. Una commedia da cui non c’è uscita e in cui siamo destinati a capire poco degli altri, di noi stessi ancora meno, avrebbe poi aggiunto nel Novecento un siciliano che per quello prese addirittura il Nobel. E come dargli torto del resto…
Ma lo spettacolo va avanti, e il teatro è sempre pieno. Su questo non abbiamo mai avuto vero potere di scelta.
E questa cos’è? Non lo so ma entriamo.
Si chiama Scuola Grande di San Rocco. Mai sentita nominare prima d’ora. Perché non ne parlano di più e più spesso, a scuola, in televisione e nei libri? Perché dobbiamo sempre andare a cercare le cose? Siamo sempre uomini, no? E perché allora dobbiamo essere divisi in quelli che cercano la verità e quelli che la tengono nascosta?
Questa Scuola Grande di San Rocco dovrebbero pubblicizzarla a ogni angolo del pianeta, tanto è bella. Sono a bocca aperta e mi vengono in mente solo aggettivi bambineschi e superlativi assoluti mentre osservo i soffitti e sorrido come un ebete e sono a tal punto rapito e distratto che vado a sbattere contro le persone.
È un posto divino.
Non se ne può parlare né scrivere.
Andateci e basta.
Per favore.

“nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.”
(Divina Commedia, Paradiso, I – 8,9).
Giusto per restare in tema.
Dalle atmosfere mistiche e i segreti custoditi nello spesso velluto delle Sinagoghe del Ghetto Ebraico di Cannaregio alle mani bianche alte nove metri che lo scultore Lorenzo Quinn ha realizzato e che ora temporaneamente ‘tengono su’ l’hotel di Ca’ Sagredo fuoriuscendo dalle acque del Canal Grande come due mostri marini gemelli.
Che altro aggiungere?

I Mori e i Piombi, i pozzi e i leoni, i ghetti e i sestieri, i ponti e le gondole, i segreti e i misteri, le Scuole Grandi e le piccole leggende, l’odore di salmastro e i soffitti sfarzosi, e ovunque le tracce dei passi di Giacomo Casanova rossi dorati sullo sfondo blu cobalto del cielo di primavera dell’Italia nordorientale.
Ecco allora perché la chiamano la città degli innamorati…
A rischio di risultare un tantino troppo introspettivo, un tantino troppo esistenzialista, un tantino troppo psicologico, confesserò comunque come la vedo io.
Il nocciolo di tutto sta nell’acqua, è chiaro. L’acqua finisce col trasformare l’intera città in uno specchio. Così, camminandole attraverso, che già è un gesto che ti porta a meditare di per sé, non puoi fare a meno di guardarci dentro, in quello specchio. È semplicemente inevitabile.
Nessun’altro posto riserva una così vasta superficie riflettente. Alla fine ti ci cade l’occhio e quel riflesso ti obbliga a… a riflettere, appunto, su di te e su te stesso, che potrebbero essere due cose diverse, anzi lo sono di sicuro.
Puoi evitarlo quanto vuoi nella vita, ma se lo fai troppo a lungo poi ti si presenta alla porta di casa con il conto e la lista in dettaglio di tutti gli interessi maturati.
Se invece decidi una buona volta di sedere a tavolino – o magari passeggiare per certe Serenissime strade interiori – e soffermartici un po’ su per capire da che parte iniziare il lavoro, allora spicchi un balzo spontaneo in avanti, e in fuori. E ti spalanchi al mondo.
E allora sì che sei pronto a innamorarti.
Si potrebbe quasi dire che incominci a farlo di mestiere.

Se ti chiedessero: “Cosa fai nella vita?”, e tu potessi stamparti un grosso sorriso ebete sul tuo faccione e rispondere: “L’innamorato”, avresti ancora una qualche paura della morte, o di fallire inseguendo un sogno, o di risultare ridicolo?
Io faccio l’innamorato, messere.
Faccio l’innamorato folle di professione.
Nessuno paga mai ma più vado avanti e più sono ricco.
E va bene, va bene, fai l’innamorato folle: ma innamorato di chi? Di cosa?
Ma di tutto…
Il mondo, la vita, la gente, i sentieri, le lagune, e soprattutto ogni viaggio fatto, fratello minore di tutti quelli ancora da compiere.
© Maurilio Di Stefano, 2018
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